I partiti tradizionali si reggevano, e si reggono, anche sulle sezioni locali, e raccontare la vita dei partiti nei territori vuol dire “raccontare la vita, o spezzoni di vita, delle persone che li hanno diretti, o che vi hanno comunque avuto un ruolo, magari marginale, ma significativo”. Così scopriamo il percorso di formazione della classe dirigente di un Paese. Agostino Pendola ha voluto colmare una lacuna. Ha voluto testimoniare la storia del Partito Repubblicano a Genova, “sotto la Laterna”. Lo fa con un testo documentato e agile, pubblicato da Bonanno Editore e tessuto sul filo dell’entusiasmo, non un elenco di nomi e cose, ma nomi al servizio di ideali, come a dire che il valore è qualcosa come una staffetta nella pista della storia e il valore è il testimone che si tramanda di protagonista in protagonista. L’essenziale alla fine, non è chi corre, ma quello che porta con sé, quello che “tramanda”.
A Genova le prime associazioni nacquero già nel 1850, e nel 1853 si raggrupparono nella Consociazione Operaia Genovese in cui erano rappresentati falegnami e muratori, fabbri e facchini, tipografi e barcaioli. «Nel 1872, ancora vivente Mazzini, in occasione di una grandiosa manifestazione a Ravenna di tutte le società romagnole vennero gettate le basi di quello che sarebbe diventato a breve il Patto di Fratellanza, per oltre vent’anni il punto di raccordo di tutte le consociazioni e confederazioni locali dell’associazionismo repubblicano». Nel 1893 il patto venne sciolto, l’anno precedente i collettivisti si erano uniti al Partito Socialista, due anni dopo nasceva il Partito Repubblicano. I primi genovesi a distinguersi Valentino Armirotti, il primo deputato e Giuseppe Macaggi. Intanto, nel 1920, nel congresso di Ancona, si decise la nascita del nostro giornale, La Voce Repubblicana. «Nel dicembre 1923 la direzione del giornale decise di lanciare tra gli iscritti ed i simpatizzanti un Prestito a fondo perduto. Una pubblicazione del 1925 riporta i sottoscrittori genovesi (che avevano offerto più di 25 lire), mentre a Sampierdarena furono una ventina».
Nel frattempo il fascismo si avviava a diventare Regime. Nel 1923 Randolfo Pacciardi, deputato repubblicano, fondò un movimento, Italia libera, che a Genova ebbe un certo successo. «Nel luglio del 1925 dal Direzione del Partito Repubblicano diramò una circolare molto ambiziosa sulla riorganizzazione del partito in Italia, dove, tra le altre cose, si prevedeva la suddivisione del partito in Liguria in cinque squadre, la riunione dei rispettivi capi-squadra avrebbe riunito le riunioni degli iscritti. Uno dei capi-squadra era Enrico Gianfranchi. Ma anche queste disposizioni restarono sulla carta e del partito, per quasi vent’anni, non si parlò più». I singoli repubblicani erano strettamente controllati, come risulta dai documenti del casellario politico centrale. Per esempio Vittorio Acquarone, massone, fermato e arrestato più volte dall’autorità. Un personaggio che ebbe una grande influenza su un’intera generazione di repubblicani genovesi. Alla sua morte La Voce Repubblicana scrisse: «Fu maestro infaticabile e prodigo per tutti, ma in particolare per i giovani che tanto prediligeva e dai quali era sinceramente amato in virtù della sua naturale bonomia e della sua semplicità». Dopo l’8 settembre 1943 si formarono in Liguria le prime organizzazioni partigiane e nell’estate del 1944 a Genova venne istituito in comando unico militare delle forze della liberazione, con i rappresentanti dei vari partiti, tra questi anche l’avvocato G.B. Bianchi Clementi, in rappresentanza dei repubblicani.
Uno dei personaggi più iconici del Pri genovese è Giuseppe De André, il papà di Fabrizio. Già giovane segretario regionale capì che l’identità del partito doveva attestarsi intorno alla questione sociale. Le politiche sociali sono l’azione mazziniana e la formula classica e caratterizzante è “capitale e lavoro nelle stesse mani”. Il capitale bisogna usarlo, mitigarlo. Bisogna insomma farci i conti. Non lo si può abbattere. I dissidi con i socialisti e con la sinistra sono ogni giorno più radicati. «Abbiamo bisogno ancora del capitale, non dobbiamo sgomentare il capitale […]. Oggi siamo convinti che non si tratta tanto di studiare ed attuare la miglior forma di retribuzione della ricchezza, perché ricchezza non ce n’è, ci potremmo tutt’al più ripartire la miseria collettiva. Oggi si tratta, invece, di creare, di produrre la ricchezza, di uscire da questo mare di miseria che minaccia di sommergerci da un momento all’altro». De André ha studiato Filosofia. «Se gli esami del primo anno (letteratura greca e latina) vennero superati con un punteggio tra ventidue e venticinque trentesimi, l’anno successivo arrivò rapidamente al ventinove e al trenta con le materie più propriamente filosofiche». Fu innamorato di Croce, lesse e amò la Storia d’Europa del XIX secolo, si laureò sulla sua filosofia della storia, gli scrisse addirittura (la lettera fu intercettata dalla polizia napoletana che vigilava sulla posta in arrivo) per trasmettere “il palpitante entusiasmo che lo pervade” e infine ne divenne prima allievo poi amico come testimoniano le lunghe giornate di villeggiatura trascorse insieme a Meana di Susa.
«Trovare un ruolo e una funzione dopo il referendum, non fu facile; da una parte c’era la consapevolezza che si trattava ora non solo di difendere la repubblica, ma anche di dotarla di strumenti che permettessero l’avanzamento delle classi popolari, all’interno delle quali il Pri riceveva gran parte del suo consenso». Gli anni del centrismo vedono l’ingresso degli azionisti, si stempera l’anticlericalismo e anzi si dialoga con i cattolici e con la Dc, si preme un po’ di più sul liberismo economico, corretto e mitigato da Keynes. «A Genova[…] nel 1950, fuori dalle aule universitarie, Keynes era ancora poco conosciuto, la classe dirigente cittadina ripartiva da Marx-Lenin, Mazzini (con l’aggiunta di Croce) e dal cattolicesimo della Democrazia Cristiana». De Andrè venne nominato vicesindaco e assessore allo Sport e al Turismo. La sua principale creatura fu il Festival del Balletto a Nervi, al Parco Groppallo.
La narrazione di Pendola prosegue dopo gli anni del centrismo, raccontando dell’apertura a sinistra, della relativa crisi. Erano gli anni della Nota Aggiuntiva, gli anni in cui si parlava di Programmazione, ma l’Italia continuò il suo sviluppo disordinato. A Genova, siamo negli anni settanta, c’è Gianni Persico. Assessore alla programmazione, si prese a parlare di programmazione territoriale. «Ma fu anche presidente della commissione statuto, e lo Statuto Regionale lo scrisse in gran parte di suo pugno. Del resto, era un giurista, docente all’Università nella materia di Legislazione del Lavoro». Impreziosiscono l’amarcord i disegni di Roberto Curotto e le testimonianze di Giuseppe Casano e Giorgio Bogi.
Pendola si conferma uno storico attento anche alle fonti di archivio contribuendo così ad evitare una “cristallizzazione” della storia.