Karl Nickerson Llewellyn nasce a Seattle il 22 maggio del 1893. Il padre è un uomo d’affari, la madre una evangelica convinta. Nel 1914 viaggia per la Francia con l’intento di coltivare le sue due maggiori passioni: il latino e il diritto. Nel 1920 prende posizione, isolato, a favore degli italiani Sacco e Vanzetti.
Associate professor dal 1925 presso la prestigiosa Columbia Law School, nel 1930 dà alle stampe il suo testo più noto: the Bramble Bush (“il cespuglio di rovi”) ponendosi a capo di quel “grido iconoclasta” che prenderà il nome di Realismo Giuridico nordamericano. La sua pretesa è quella di delineare una teoria del diritto tout court, che sconfini nella sociologia e nell’antropologia. Con lo stesso spirito, nel 1940 pubblica the Cheyenne Way, uno studio sugli indiani Cheyenne avente lo scopo di dimostrare che anche una popolazione priva di codici e tribunali potesse produrre – a suo dire – un sistema normativo sofisticato. Dello stesso anno ci deve interessare tuttavia un’altra pubblicazione, considerata concordemente come la più matura: sulle pagine dello Yale Law Journal compare il saggio the Normative, the Legal, and the Law – Jobs, qui tradotto come “Il normativo, il giuridico e i compiti del diritto”. Un testo difficile, allusivo, intricato, che mantiene la medesima premessa: il diritto deve permeare la società “in ogni suo interstizio”.
Il saggio inizia con l’evidenziare una importante differenza: quella tra “legalità” e “legalismo”. La prima, la sostanza, “deve generare una buona soddisfazione”; il secondo, la forma, “si caratterizza per effetti insoddisfacenti e legnosa arbitrarietà”. Esaurita questa precisazione concettuale essenziale e fondativa del pensiero di Llewellyn, si passa poi alla discussione di quelli che dovrebbero essere i compiti del diritto, indispensabili per qualsiasi gruppo (un gruppo che sia composto da due persone in su).
Ebbene, il primo compito è semplice: “far sì che un gruppo rimanga un gruppo”, che una società rimanga una società. Questo, dunque, il primo scopo della legge: l’autoconservazione. Il secondo, invece, “si colloca a livelli che poche società hanno toccato”: ossia “fare questo non in modo tale da soffocare l’indispensabile flusso di energia umana, ma di suscitarlo”. Un riferimento, se vogliamo, all’articolo uno della costituzione della Pennsylvania del 1776, che menziona, tra gli altri, il diritto (inalienabile) al perseguimento della felicità.
Per realizzare ciò, secondo l’autore bisogna mantenere una visione d’insieme, in realtà propria del diritto: “l’unica voce dell’intero, nella confusione, […] è la voce del diritto”. Tuttavia non è capace di nascondere che “il diritto, nel suo insieme e nei suoi dettagli, è troppo difficile da capire e, quando lo si capisce, troppo spesso genera dubbi sul modo in cui presta servizio a questo intero”. Quindi la critica ai funzionari del diritto: “i modi e l’ideologia dell’istituzione tendono a inspessirsi, irrigidirsi, tendono a cristallizzarsi […] oppure, tendono a essere utilizzati a beneficio del loro personale, anziché del popolo”.
Il Realismo Giuridico almeno da un decennio si era scagliato infatti contro ogni sorta di formalismo legale (quello che prima si è chiamato “legalismo”), tanto che lo stesso Llewellyn aveva relegato le norme giuridiche a mero strumento per prevedere quali saranno le decisioni del giudice: “aldilà di questo” dice in the Bramble Bush “sono solo giocattoli graziosi”. Sempre scagliandosi contro quella “letteralità dove c’è lettera” e quel “formalismo dove c’è forma”, si accinge ora alla conclusione del saggio: “tra la richiesta di grazia […] o di una individuazione del caso che non tenga conto delle regole da una parte […] e la richiesta che la pena venga eseguita alla lettera, dall’altra, non c’è una scelta semplice, ma un campo esteso del quale non c’è una mappa semplice”.
Esteso, verrebbe da dire, arrivati a questo punto, come estese sono le grandi pianure dove gli Cheyenne andavano a caccia. Esteso come estesa è la realtà, cui i realisti assegnano la massima attenzione, sfuggendo ostinatamente ogni barocchismo in nome del giusto, che nonostante questo può e deve coincidere col giuridico (a differenza di quanto sostenuto da Aristotele, che nella Retorica aveva condotto la Giustizia sul piano della morale, svincolata quindi dalla legge).
Ad ogni modo, al netto delle dispute concettuali e delle dottrine di pensiero, questo di Llewellyn rappresenta, per noi europei, per noi italiani, se non un insegnamento, almeno uno stimolo a riflettere su quale effettivamente sia la missione (in senso mazziniano) del diritto, che sempre in nome di quell’ “Intero” può ricondursi all’arte, alla letteratura, alla filosofia, fino ad arrivare alla politica, perché tutte ugualmente espressioni della società. La vera chiusura del saggio, se questa non ci soddisfa, andrebbe perciò trovata altrove: nell’introduzione. Qui si nasconde infatti un’immagine metaforica, speranzosa, confidente nel futuro, come proprio di quel nuovo mondo mai estraneo alla modernità. «Alle discipline sociali si richiede di avvedersi del fatto che il lavoro odierno in ambito giuridico è non solo un mercato per i loro prodotti, ma anche una ricca area produttiva. Si pensi ad antiche miniere, che un tempo venivano adoperate e valorizzate, quindi dismesse e ora ricollocate, e in attesa».
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