Omaggio a Umberto Eco, ora che scadono sette anni dalla sua scomparsa, questa raccolta di scritti sull’arte di vario taglio e di diversa destinazione (Sull’arte. Scritti dal 1955 al 2016, a cura di Vincenzo Trione, La Nave di Teseo, Milano 2022), cerca di riannodare uno dei fili che, sotterraneamente, hanno percorso l’intero arco della riflessione del filosofo, semiologo, massmediologo e scrittore italiano: sei decenni che vanno dall’anno successivo a quello della sua laurea in filosofia, conseguita presso l’Università di Torino con una tesi su Il problema estetico in san Tommaso, all’anno appunto della sua morte. In tutto, poco più di mille pagine, ordinate cronologicamente in tre macro-sezioni: la prima, «Teorie, metodi, problemi», che ospita saggi di natura teorica e metodologica, la seconda, «Critica, interventi, dialoghi», che ospita interventi di critica militante e scritti d’occasione, quali le presentazioni di mostre di amici artisti e di compagni di strada, e la terza, «Articoli, note, bustine», che ospita articoli pubblicati su giornali e su riviste come, ad esempio, «L’Espresso», settimanale cui collabora dal 1965 e dove, dal 1985, tiene la nota rubrica «Le bustine di Minerva».
Nell’«Introduzione» al volume, il curatore insegue quell’«idea fissa» che, secondo lui, può essere vista attraversare, da un capo all’altro, l’intera produzione estetologica di Eco, al di là delle sue declinazioni frammentarie, discontinue, stratificate e labirintiche. E ciò perfettamente in linea con quanto Eco stesso ha sostenuto, dichiarando che, nella sua multiforme produzione, egli non si sarebbe mai allontanato da un’unica ossessione, ossia avrebbe sempre circumnavigato intorno a un solo e medesimo polo. Ebbene, tale «idea fissa» sarebbe data da un’ininterrotta, indiretta ed eccentrica «ipotesi di riscrittura del concetto di formatività», teorizzato dal suo maestro universitario Luigi Pareyson, nella sua Estetica del 1954. Ed ecco come Trione definisce il concetto di «formatività»: «esperienza irriducibile che, mentre fa, inventa e svela il suo modo di fare; […] situazione in cui non ci si limita a eseguire “qualcosa di già ideato o a realizzare un progetto già stabilito o ad applicare una tecnica già predisposta”, ma, nella creazione stessa, si sperimenta il modus operandi». In poche parole, «si “concepisce eseguendo” e si “progetta nell’atto stesso che si realizza”». «[F]are arte – scrive lo stesso Eco nel contributo I due lati della barricata (1977) – è una pratica che provvisoriamente distrugge in modo definitivo dei paradigmi esistenti – e di qui nasce poi il piacere che se ne può provare e le architetture che si possono scoprire nell’organizzarsi di questa pratica. Quindi è chiaro perché continuiamo a fare arte. È biologico». Per cui è del tutto naturale che la pratica artistica non si depositi mai una volta per tutte, ma assuma «sempre nuove forme».
Articolando insieme norma e creatività, forma e indeterminazione, modello e sua riconfigurazione inventiva, Eco giunge a teorizzare così il concetto di «opera aperta», nel volume, del 1962, che si avvale di questa formula proprio nel titolo. Qui, egli sviluppa un’indagine di alcuni significativi momenti in cui l’arte contemporanea si è trovata a fare i conti con il disordine, inteso,
quest’ultimo, come la produttiva e feconda rottura di quell’ordine tradizionale che l’uomo occidentale, credendolo definitivo e immutabile, identificava con la struttura oggettiva stessa del mondo. In tal modo, si perviene a un’idea di creazione artistica come quella strutturazione di forme cui mette capo un farsi aleatorio sempre rinnovato, il quale può essere inquadrato così nel segno degli apporti che ci vengono dalla teoria dell’informazione, della comunicazione e dalla fisica quantistica. Ma, mettendo capo a una forma, un’opera d’arte è non solo il punto di arrivo di un processo di produzione, ma è anche il punto di partenza di un processo di fruizione, vista la molteplicità e mobilità di letture che essa promuove e consente. «[I]l modello di un’opera aperta – leggiamo nell’«Introduzione» alla II edizione di Opera aperta – non riproduce una presunta struttura oggettiva delle opere, ma la struttura di un rapporto fruitivo; una forma è descrivibile solo in quanto genera l’ordine delle proprie interpretazioni». Pertanto, le opere d’arte sono, per Eco, dei veri e propri dispositivi semantico-pragmatici, i quali, chiamando sempre in causa atti e risposte interpretative consapevoli, portano, in qualche modo, già inscritto in se stesse il comportamento libero e inventivo dei loro rispettivi destinatari.
Ora, l’attenzione riservata da Eco all’idea pareysoniana di «formatività» incide, soprattutto, nelle sue analisi delle avanguardie e delle neoavanguardie, a proposito delle quali, sempre in Opera aperta, egli così si esprime: «mentre si crede che l’avanguardia artistica non abbia un rapporto con la comunità degli altri uomini tra i quali vive, e si ritiene che l’arte tradizionale lo conservi, in realtà accade il contrario: arroccata al limite estremo della comunicabilità, l’avanguardia artistica è l’unica a intrattenere un rapporto di significazione con il mondo in cui vive». In tal senso, egli è giunto a elaborare una vera e propria cartografia delle avanguardie, suggerendo l’ipotesi interpretativa secondo cui esse tendono a oscillare fra le due polarità del destino e del progetto, dove l’artista mentre, in un caso, si misura con l’eventualità e con l’imprevisto (vedi, ad esempio, l’Informale), nell’altro, tende, invece, a dominare, nel segno di una forma mentis geometrica, ogni suo gesto e operazione (vedi, ad esempio, l’arte cinetica, l’arte programmata e l’arte processuale). Dopo Opera aperta, la soglia successiva verso cui si indirizza la riflessione estetologica di Eco è data da una ricognizione in chiave semiotica dei codici visivi. Nel libro, del 1968, La struttura assente, scrive: «Nessuno mette in dubbio che a livello dei fatti visivi avvengano fenomeni di comunicazione; ma è dubbio che questi fenomeni siano di carattere linguistico». Se ne ricava, di qui, la «prima avvertenza» che si deve tenere sempre presente in sede di ricerca semiologica, ossia che «non tutti i fenomeni comunicativi sono spiegabili con le categorie della linguistica». Lo ribadisce anche nel testo, del 1978, Prospettive di una semiotica delle arti visive, laddove critica la tendenza delle semiotiche visive a uniformarsi al modello linguistico, così da credere di poter trattare i fenomeni di loro competenza facendo ricorso a segni scomponibili e codificati. Eco ne conclude così che ciò che distingue un segno iconico da un segno verbale sta nel fatto che il primo, rispetto al secondo, presenta un indice di individualizzazione più alto in ordine agli elementi dello “stile”, per cui nell’uno e nell’altro caso si pongono problemi di decodifica sostanzialmente diversi. E anche qui si può intravedere in filigrana la nozione di «formatività», in quanto ogni segno visivo è dotato sì di un profilo specifico, ma per acquisire un senso e uno spessore proprio deve stipulare una sorta di “patto” a livello percettivo con il fruitore.
Infine, di Eco non va dimenticata l’attività di studioso di alcuni tra i fenomeni più tipici della cultura di massa, quali il kitsch, il fumetto, il falso e il brutto in arte, il cinema e la letteratura di largo consumo. Quanto al primo, in particolare, egli lo interpreta non nell’accezione ristretta di “cattivo gusto”, ma – richiamandosi, significativamente, ancora una volta, alla nozione di «formatività» – come quella «forma di conoscenza attuata mediante una formatività fine a se stessa, che permetta una contemplazione disinteressata», nel senso che l’oggetto artistico non viene goduto per il «puro gusto del formare che in esso si attua», ma per il semplice «effetto di artisticità» che, rendendocelo desiderabile, esso produce su di noi. Non solo, ma, inaspettatamente, il kitsch stringe anche un rapporto molto stretto con l’avanguardia, in quanto se la seconda sorge come reazione alla diffusione del primo, questo «si rinnova e prospera proprio ponendo continuamente a frutto le scoperte dell’avanguardia». In tal senso, il kitsch sarebbe lo specchio, forse, più fedele della situazione antropologica della cultura di massa, dove, nella continua dialettica fra proposte innovatrici e adattamenti omologativi che la caratterizza, le prime sono «continuamente tradite dai secondi: con la maggioranza del pubblico che fruisce dei secondi credendo di adire alla fruizione dei primi».
Foto Aubery | CC BY-SA 1.0