L’interesse coltivato da Remo Bodei per Leopardi non è stato mai occasionale, ma ha puntualmente accompagnato l’evolversi della sua riflessione filosofica. È così che, a poco più di tre anni dalla sua scomparsa, esce questo volume (Leopardi e la filosofia, a cura di G. Giglioni e G. Polizzi, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 148) che raccoglie gli scritti da lui dedicati al poeta di Recanati, nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2017.
Nel suo rivendicare a Leopardi la qualifica di «grande filosofo» – il «maggiore dell’Ottocento italiano e non solo» –, Bodei inizia collocandolo in quella tradizione del nostro pensiero che egli chiama «critica della ragione impura». Tale tradizione si è caratterizzata, infatti, non solo perché ha sviluppato una pedagogia politica a forte vocazione civile, ma anche perché, rifiutandosi di assegnare il primato alla «conoscenza dell’assoluto, dell’immutabile o del rigidamente normativo», si è sempre mossa in ambiti problematici in cui si sono incontrati e scontrati fra loro – dando vita così a un «intreccio “ambiguo”» – l’universale e il particolare, la logica e l’empiria, l’immaginazione e l’intelletto, il desiderio e la realtà. Per Leopardi, la ragione può svolgere un ruolo positivo solo se essa istituisce un’alleanza con la sfera del bello, nonché vince quella sua snaturata tendenza che la vede operare al servizio dell’egoismo. In tal senso, egli non può essere definito né come un “irrazionalista”, né come un “progressista” e né, tantomeno, come un “nichilista”, nel significato nietzscheano e post-nietzscheano del termine. Nella fase ultima della sua riflessione, il suo proposito è stato, piuttosto, quello di completare e oltrepassare le conquiste dell’illuminismo mettendo capo a una «ultrafilosofia», intesa come un’opera di «prosecuzione della filosofia con i mezzi della poesia».
Ora, è molto significativo il fatto che, nonostante il termine «ultrafilosofia» ricorra una sola volta nelle pagine di Leopardi, essa può essere vista come la vera e propria cifra unificante di tutto il suo «pensiero poetante». Nel segno di quest’ultimo, la filosofia, da un lato, senza indulgere all’irrazionalismo romantico, deve estendere l’ambito tradizionale di sua competenza e acquisire così quelle “verità” che le porge l’immaginazione, dall’altro, deve poetizzarsi appropriandosi dell’altro da sé, ossia non smettere mai di sperimentare le passioni, i sentimenti e le illusioni. Ma l’«ultrafilosofia» deve farci anche guadagnare un’adeguata comprensione del sistema dell’universo: dismettendo ogni ideologia ottimistica del progresso, dobbiamo arrivare a vedere la storia stessa come inscritta nella vicenda cosmica della natura, la quale si distingue appunto per la sua sublime grandezza e per la sua potenza distruttrice e che è, pertanto, del tutto indifferente alla sorte degli esseri che in essa nascono e periscono. Nella lotta che l’uomo ingaggia con la natura nemica, egli, per quanto non possa mai uscirne vincitore, se mantiene una condotta nobile e dignitosa e non sopravvaluta superbamente la propria importanza, non ne esce mai però intimamente sconfitto. Tutto sta nell’acquisire un’idea sobria e disincantata della nostra condizione misera e sofferente di «animali desideranti», i quali «cercano il piacere senza limite e la felicità, ma trovano infiniti ostacoli al loro raggiungimento».
Per Bodei, l’opzione “politica” cavalcata da Leopardi può essere definita così come «atopica», piuttosto che «utopica». Non si tratta di prospettare nel futuro il modello di una società umana perfetta, ma di prendere coscienza del fatto che è proprio il senso di soggezione che proviamo di fronte alle potenze della natura ciò che, affratellandoci in un comune destino, pone in essere e rinsalda il legame comunitario e sociale. Una filosofia civile, dunque, che fa poggiare la prassi politica, la giustizia e la pietà non su «favole presuntuose», ma su una base tale che, per quanto non abbia un «fondamento razionale certo», nasce tuttavia da un «bisogno di autoconservazione collettiva».
Quanto alla concezione leopardiana del male, poi, egli distrugge sistematicamente il modo tradizionale di intenderlo come quel turbamento accidentale, causato dalla volontà umana, di un ordine divino e naturale. Dissolto qualsiasi fondamento oggettivo per cui le cose debbano essere in un modo o nell’altro, buone queste e cattive quelle, dobbiamo arrivare fino a infrangere il principio stesso di non-contraddizione che finisce così per apparirci come assolutamente falso. In tal modo, l’etica, per Leopardi, poggia paradossalmente proprio su quel fondamento stesso di cui manca. «Di per sé, infatti, l’uomo non è né buono, né cattivo: durante il suo sviluppo storico, la sua natura ha finito soltanto col porsi in contraddizione con se stessa. Egli soffre cioè perché è dilaniato da opposte tendenze». E ciò a tal punto che ha fatto del suo animo un campo di perenne battaglia. Venendo al rapporto che corre fra Leopardi e Kant, Bodei nota che, per quanto il primo non abbia sicuramente letto il secondo, due liriche del poeta di Recanati possono essere avvicinate mettendole produttivamente in rapporto con alcuni pensieri del filosofo tedesco.
Si tratta de L’Infinito e de La ginestra, dove, mentre l’uno sta in corrispondenza esatta con il concetto di «sublime matematico», relativo alla grandezza immensa della natura, l’altra sta, invece, in corrispondenza esatta con il concetto di «sublime dinamico», relativo alla potenza distruttrice della natura stessa.
Nell’Infinito, in particolare, nel segno del conflitto fra ragione e immaginazione che attraversa l’intera poesia, la seconda, mossa dal suo desiderio di infinito, per cui si spinge in quegli «interminati spazi» che si aprono oltre i confini percettivi segnati dall’«ermo colle» e dalla «siepe», si rappresenta, nel pensiero, idee kantianamente intese, per le quali cioè non si dà nessun referente sensibile. Il sublime si configura così come quel vuoto che Leopardi non intende affatto colmare, ma far piuttosto risaltare, contrapponendolo a quel pieno costituito da ciò che cade sotto i nostri sensi. E questo proprio perché quel che muove l’uomo è il desiderio, più che di conoscere, di sentire infinitamente. Ma se nessuna cosa è assolutamente necessaria, per cui il principio di essa è il nulla, ne discende che l’atteggiamento sublime per eccellenza è la noia, intesa, appunto, come sentimento della vacuità di tutto ciò che esiste. Il punto è però che proprio lo spettacolo della nullità, espandendo il nostro animo, è ciò che ci fa guadagnare un concetto più alto e nobile di noi stessi. Infine, per quanto riguarda il giudizio di Leopardi circa il secolo in cui vive, esso si caratterizza, secondo lui, per il trionfo di una ragione che, essendo fattasi avida e calcolatrice, ha smarrito quello che era il suo orientamento naturale verso il bene comune, per cui, rassegnandosi all’ineluttabilità del quotidiano, si è dedicata a perseguire solo gli ideali più volgari e meschini, come, ad esempio, la ricerca ossessiva del benessere e il controllo dispotico delle risorse. Cosa che, nascondendoci la criticità della nostra condizione, ha anche impoverito “ecologicamente” il mondo che noi abitiamo, riducendolo a un’inesauribile riserva di beni ed energie che sono messi a nostra completa disposizione.