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Nikki Haley, l’anacronistica necessità

Stefano Magni di Stefano Magni
16 Marzo 2024
in America e Atlantico
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Nikki Haley rappresentava il non plus ultra del candidato repubblicano. Giovane, donna, appartenente a una delle minoranze più in crescita e più dinamiche (è di genitori indiani), imprenditrice, con un passato di governatore e di ambasciatore all’Onu. Possiede la qualità che solitamente determina la nomination: le migliori possibilità (secondo tutti i sondaggi) di battere Joe Biden con un ampio margine di vantaggio. Ha tutte le idee che caratterizzano il Partito Repubblicano da Ronald Reagan in poi: per il libero mercato e contro l’aborto, per il sogno americano ma contro l’immigrazione selvaggia, favorevole a mantenere lo status di prima potenza del mondo e non prona alle organizzazioni sovranazionali, per la difesa delle democrazie e per quella dei confini nazionali. Insomma perfetta. Talmente perfetta che l’elettorato repubblicano l’ha sonoramente bocciata. Solo due Stati atipici l’hanno eletta a candidata, contro Trump: la capitale Washington DC e il remoto Vermont (che è più Canada che Usa). Negli altri è stata sconfitta, addirittura doppiata, dall’ex presidente.

Cosa è successo? Non aveva abbastanza soldi per farsi una campagna elettorale decente? Tutt’altro. I fratelli Koch, tra i maggiori finanziatori del Grand Old Party, hanno creduto in lei e sin da subito le avevano messo a disposizione, sia laute risorse economiche che la loro ben oliata macchina della propaganda elettorale. Giusto per fare un esempio, nel caucus dell’Iowa e nelle elezioni primarie del New Hampshire, la Haley ha speso circa il doppio di quanto ha investito Trump. Allora ha avuto un atteggiamento sbagliato nei confronti del rivale? Tutt’altro. Tanto è vero che gli attacchi che Trump le ha rivolto, fino alle ultime tornate elettorali (quando era rimasta l’unica in campo) erano minimi, nei toni come nella quantità. La Haley non ha mai dato l’impressione di essere “fuori dal partito” o così faziosa da preferire un Democratico a Trump. Lo ha difeso puntualmente ad ogni attacco giudiziario che subiva. Al tempo stesso ha ribattuto colpo su colpo sui contenuti delle sue politiche, considerandole troppo ingenue in politica estera, troppo condiscendenti con i dittatori e, in politica interna, un tradimento dei valori della libertà di mercato. 

La sconfitta della Haley, dunque si può spiegare solo con una vera mutazione antropologica dell’elettorato repubblicano. Che non è più conservatore, ma “cristiano e nazionalista”, i due aggettivi con cui, più frequentemente, si definiscono i sostenitori di Donald Trump.

La Haley chiedeva, prima di tutto, di difendere le democrazie dall’attacco delle dittatura. Ma ai Repubblicani attuali interessa poco o nulla della distinzione fra democrazia e dittatura. Ai Repubblicani attuali interessa solo lo scontro di civiltà, dove è la religione a fare da discrimine. Sono dunque ancora convinti di difendere Israele contro nemici islamici, perché la sopravvivenza di Israele resta di fondamentale importanza per un elettorato evangelico. Sono ancora dell’idea che Taiwan vada difesa? Probabilmente sì, ma solo perché il nemico è una potenza atea, la Cina, accusata di avvelenare i giovani americani con il Fentanyl e TikTok. Ma all’elettore di Donald Trump non si può chiedere nemmeno un centesimo per la difesa dell’Ucraina. Prima di tutto perché è una nazione europea che vuole entrare nell’Ue, che per un nazionalista cristiano è sinonimo di vizio e decadenza, di welfare esagerato e difesa a scrocco (sulle spalle del contribuente americano). “È una guerra europea. Ci pensi l’Europa” è la risposta che chiunque, fra gli America Firsters, darebbe all’interlocutore europeo. In secondo luogo, perché Putin, dittatore cristiano che si erge a difensore dei valori tradizionali, non è visto, dai nazionalisti cristiani, come un nemico di civiltà. Non che stia simpatico a molti Repubblicani (fra gli elettori che si identificano come tali, il 91% ha un concetto negativo della Russia, secondo un sondaggio del Pew Research Center), però non viene percepito come un nemico esistenziale. Viene al massimo visto come un lontano criminale (“un gangster che amministra una pompa di benzina” lo definì DeSantis nel 2022) che è meglio lasciare in pace, senza immischiarsi nelle sue guerre, se non altro perché dispone di migliaia di testate nucleari. Terzo, e qui la colpa è dei Democratici, perché a Putin viene associato Trump e a Zelensky viene associato Biden. Nei primi due anni di amministrazione Trump, l’opposizione cercò di incastrare il presidente con il “Russiagate” (il presunto appoggio di Putin alla campagna elettorale del 2016). Non riuscendoci, i Democratici hanno finito col rafforzare, non solo l’immagine di Trump, ma, per proprietà transitiva, anche quella di Putin. A Biden viene invece associata l’Ucraina, perché il figlio Hunter Biden è accusato di aver intascato laute tangenti da Burisma, colosso del gas ucraino, quando ne era amministratore. E ciò avveniva proprio all’indomani della rivoluzione del Maidan, l’inizio della crisi russo-ucraina.

Nikki Haley perora anche la causa del libero mercato. Ma anche da questo orecchio i nuovi elettori repubblicani non ci sentono più. Libero mercato, o peggio “globalizzazione”, sono diventati ormai sinonimi di delocalizzazione, di disoccupazione, di perdita delle eccellenze industriali americane e di arricchimento di una nuova élite di imprenditori della Big Tech che promuovono un’ideologia woke (militante antirazzista, pro-Lgbt ed ecologista), tutto ciò che per un Repubblicano è male. Se il governatore DeSantis impone più tasse alla Disney, perché contesta la sua politica contro il gender nelle scuole, un Repubblicano tende ad apprezzarlo. Fino a una quindicina di anni fa lo avrebbe sonoramente bocciato nel nome della libertà di mercato e dei suoi vantaggi. Il libero mercato è associato anche al tema più scottante di tutti, oggi come nel 2016: l’immigrazione dal Messico. Le imprese americane sono accusate di incoraggiare un’immigrazione selvaggia per avere manodopera a basso costo. Nikki Haley chiedeva un’immigrazione di qualità, per questo è stata vista come portavoce delle aziende “immigrazioniste”. All’elettore di Donald Trump importa solo l’espulsione di tutti gli irregolari. Oltre che dei regolari che ritiene non integrati. 

Insomma Nikki Haley, fino ai primi anni ’10, non oltre, sarebbe stata la candidata perfetta. Oggi risulta anacronistica. Non perché sia cambiata lei, ma perché è cambiato il popolo.

Foto Gage Skidmore | CC BY-SA 2.0

Stefano Magni

Stefano Magni

Stefano Magni, nato a Milano nel 1976, è un giornalista e saggista. Laureato in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Pavia nel 2001. Ha pubblicato con l’editore Libertates “Contro gli statosauri, per il federalismo” (2010) e “Quanto vale un Laogai? Gli occidentali e il mistero della Cina” (2012). Per la Fondazione Magna Carta ha pubblicato il libro-inchiesta “It’s Tea Party Time. Stato e individuo nell’America del XXI Secolo” (Magna Carta, Roma, 2011). Collabora come associato al corso di Economic Geography presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano

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