L’Italia è un paese di imprenditori. Può sembrare strano e molti potranno sorridere di quanto stiamo scrivendo ma, dati alla mano, è così. L’economia italiana si basa in larga parte su imprese di piccole dimensioni, da sempre ossatura economica della nostra Nazione, ma paradossalmente spesso dimenticate dalle politiche dei governi a favore di tutele maggiori in altri settori. Purtroppo l’Italia è un paese che spesso ha preferito rivolgere le risorse altrove piuttosto che alla tutela e allo sviluppo del suo tessuto imprenditoriale, vuoi per calcoli elettorali, vuoi per una certa retorica, oggettivamente stantia, che vede nel privato il nemico del pubblico.
In realtà, uno sviluppo economico armonico necessita di entrambe le componenti, privata e pubblica, per poter fornire occupazione, servizi, sostenere la produzione e la domanda e, in generale, ha bisogno di una collaborazione fattiva tra i due settori, basata su fiducia, trasparenza, burocrazia snella e sostegno economico. Quelle che stiamo scrivendo dovrebbero essere ovvietà ma purtroppo non lo sono. La nostra amata Italia ha nelle imprese private il suo settore economico principale per cui è necessario trovare più risorse, in particolar modo per le piccole e medie imprese (PMI).
La definizione di PMI è contenuta nella Raccomandazione n. 2003/361/CE della Commissione Europea del 6 maggio 2003 e indica i requisiti che una impresa deve soddisfare per rientrare nella categoria di micro, piccola o media impresa. Una impresa è definita microimpresa quando ha meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo inferiore ai 2 milioni di euro (o un totale di bilancio inferiore ai 2 milioni), è definita piccola impresa se ha 10 dipendenti e meno di 50 o un fatturato (o un totale di bilancio) inferiore ai 10 milioni e infine appartiene alle medie imprese se ha più di 50 dipendenti ma meno di 250 e un fatturato inferiore ai 50 milioni o un totale di bilancio inferiore ai 43 milioni.
Ma c’è di più, perché i criteri sopra esposti non bastano, ve n’è infatti un altro a nostro parere assolutamente fondamentale e cioè l’indipendenza. La normativa prevede che l’impresa sia definita indipendente quando i diritti di voto o il capitale detenuto eventualmente da un’altra impresa che non ha gli stessi requisiti, ad esempio una grande impresa, non superi il 25%. Per dovere di completezza segnaliamo che questo limite può essere superato ma in pochi casi e tipicamente da imprese pubbliche, enti pubblici o investitori istituzionali. Esistono alcune fattispecie private che consentono di superare il limite, ma che non modificano in alcun modo il discorso che qui stiamo portando avanti.
I numeri del 2019, contenuti nel rapporto ISTAT 2022, fotografano l’esistenza di quasi 4 milioni di microimprese pari al 94,80% delle imprese attive in Italia che danno lavoro al 43,20% di tutti gli occupati nel settore privato. Risultano tuttavia poco produttive, producendo solo il 26,80% del valore aggiunto, contro le grandi imprese che rappresentano solo lo 0,10% del totale ma producono ben il 35,30% del valore aggiunto, ma danno lavoro solo al 23,30% dei lavoratori privati (questi dati sono tutti relativi al 2019). Anche il confronto coi dati europei non è incoraggiante, le microimprese italiane producono un valore aggiunto di 30.000 euro circa per addetto, contro una media europea di 35.000 euro.
Se invece consideriamo tutte le PMI vediamo che queste rappresentano il 5,10% delle imprese private, in linea coi dati europei, contro le grandi imprese che sono solo lo 0,10% (mentre la media europea è 0,19%). Se le produttività delle microimprese non è soddisfacente, quella delle PMI italiane invece è particolarmente rosea: le nostre piccole e medie imprese generano un valore aggiunto di 56.500 euro per addetto, contro i 48.000 euro di media europea. Le nostre PMI sono quindi poche rispetto alle microimprese che dominano la nostra economia privata ma sono molto efficienti; un comparto da rafforzare.
Le grandi imprese, lo riportiamo per completezza, producono invece 73.700 euro di valore aggiunto per addetto contro i 73.200 euro della Francia e i 70.700 euro della Germania (media europea dei 28 paesi aderenti: 66.000 euro). A fronte di questi numeri ci chiediamo, che futuro per le piccole e medie imprese? Sembra un paradosso economico voler dedicare impegno e risorse alle imprese di minori dimensioni rispetto ai grandi colossi aziendali.
In realtà, se le grandi imprese sono ormai stabilizzate sui loro mercati di riferimento la crescita sana non può che venire dalle PMI, aziende che devono ancora puntare a grandi risultati, che devono ancora compiere un cammino di investimenti importante, che devono ancora insomma diventare grandi. Se faremo diventare grandi le piccole e medie imprese, faremo diventare grande l’Italia. Ci sarà mai un governo che avrà il coraggio necessario?