La prima volta che, secondo le cronache, viene ascoltato il grido “Viva ‘Italia”, è a Borodino, durante la carica della cavalleria del Re di Napoli alle ridotte russe di Kutuzov. Il capo di Stato maggiore dell’Imperatore, Berthier, lo scrive nel dispaccio della giornata. La cosa sorprese non poco Napoleone perché nessun tedesco, impegnato in battaglia, aveva gridato “viva le Germania”, o uno spagnolo “viva la Spagna”. Nell’Armata era consuetudine l’urlo di “viva la Francia”, o al limite di “viva l’Imperatore”. I dissidi fra Napoleone e suo cognato Gioacchino Murat peggiorarono durante la seconda campagna di Polonia, poiché il suo ministro di Polizia, Fouché. sosteneva che Murat da Napoli puntasse ad unificare l’Italia per oscurarlo. Ci furono persino dei libelli clandestini a Parigi che dileggiavano Napoleone rientrato precipitosamente dalla Russia lasciando il comando a Murat. Contava che quello non sarebbe più riuscito a fare ritorno. Non conoscevano Murat. I francesi fecero a pezzi i russi più durante la ritirata che durante l’avanzata, persino alla Beresina, Il maresciallo Oudinot, non certo un fulmine, con quattrocento cacciatori della Guardia lasciò novemila russi sul campo dove prevedevano di sbarragli la strada.
La Fondazione Ravenna Risorgimento dedica il prossimo 29 marzo un convegno al l proclama di Rimini, lanciato da Murat agli italiani il 12 maggio 1815, duecento dieci anni fa. La data del proclama era retrodata del 30 marzo. Napoleone non era stato ancora sconfitto, ma lo era già Murat a Tolentino il due di maggio. L’attacco condotto intempestivamente contro gli austriaci aveva indispettito definitivamente l’Imperatore appena tornato alle Tuleries e desideroso di riprendere i suoi legami con la casa d’Austria che gli nascondeva la moglie ed il figlio. Murat aveva cercato di riappacificarsi con l’imperatore, si offerse come semplice generale di cavalleria, e Napoelone non si sa nemmeno se lo ricevette. Da qui il gesto estremo dell’appello all’unità Italiana. Un espediente straordinariamente efficace. Non per smuovere le masse, Murat sarebbe presto finito arrestato e fucilato, ma per colpire le coscienze che lo lessero prendendo il testo molto sul serio. Murat era pur sempre un rivoluzionario appassionato che aveva compiuto tutta la sua carriera nell’armata giacobina, fino ad incontrarsi fatalmente con il robespierrista Bonaparte.
Fu Francesco De Sanctis nel suo “Mazzini” a dare la lettura dell’intera epopea. Il secolo XVIII concepiva la libertà come l’affrancamento delle classi medie e di quelle inferiori, ovviamente, dallo strapotere dell’aristocrazia e del clero. Beccaria e Filangeri vogliono conquistarla con le riforme a fanno appello ai principi. Fallito miseramente quel tentativo anche in Francia, si trovò la Rivoluzione. De Sanctis cita direttamente Robespierre: “Per conquistare la libertà, bisogna sopprimere la libertà”. La Convenzione usò la ghigliottina in Francia, come Napoleone a colpi di sciabola, introdusse il codice civile in tutta Europa. Il liberalismo del secolo XIX, secondo De Sanctis, sarà una mera reazione a questo rivoluzionario che pure gli aveva consentito di tirare il fiato.
Le “Lezioni” di De Sanctis su Mazzini restano ancora oggi un capolavoro insuperabile e pure sono troppo assertorie nei confronti di un’epoca tanto frastagliata. Il bonapartismo, in Murat più di tutti, presuppone un’ambizione individuale che supera molto spesso i confini dell’interesse generale. Si abbatte un’aristocrazia e se ne costruisce un’altra persino meno credibile, nonostante abbia un talento più evidente. In Murat non solo militare, ma anche amministrativo. Tutte la modernizzazioni compiute nel regno delle due Sicilie hanno la sua firma, cominciando dalla scuola pubblica. I Borboni si occupavano della caccia. Poi, come si vide, l’ambizione è contagiosa. Pellegrino Rossi agli ordini di Murat.
Napoleone non voleva liberare il nord Italia, si accontentava di allontanare la minaccia austriaca dalla Francia. I più delusi da lui furono i giacobini torinesi. Eppure l’ illusione indipendentista fu funzionale ai suoi piani e Bonaparte, magari sorridendo, era ben contento di alimentarla. Il Foscolo corse ad arruolarsi nell’intendenza napoleonica ancora durante i cento giorni. Caduto Napoleone gli austriaci rispettosi del poeta gli offrirono una pensione, che quello rifiutò sdegnosamente. Foscolo morì esule ed in miseria in Inghilterra. Mazzini, appena giunto sull’Isola, come prima cosa si recò sulla sua tomba. Il legame tra la tradizione mazziniana e il giacobinismo ed il bonapartismo è molto più profondo di quanto si creda comunemente. Ringraziamo gli amici di Ravenna che se ne sono accorti.
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