C’è quasi un Pasolini per tutti. Dipende con che occhi lo leggi. C’è anche il fatto che si tratta pur sempre dell’intellettuale più citato e meno frequentato d’Italia. Certo, in una prima collocazione lo diresti a sinistra, e tale più o meno si è anche definito lui, ma è una posizione che va presa con le molle, perché intanto dal Pci nel 1959 fu addirittura espulso, altro che amore: per “indegnità morale”, cioè per omosessualità. E poi no, malgrado qualche eccezione in qualche dirigente di partito (Gianni Borgna, Veltroni) la sua opera non ha mai convinto particolarmente. Allora, con Marcello Veneziani, bisognerebbe dire che Pasolini è un autore di destra, certo con la sua atipicità, ma a quello porta il suo amore per il sociale, la sua sensibilità per gli ultimi, la sua periferia, la sua attenzione per la tradizione, contadina, cattolica. Già, il cattolicesimo. Perché non si può non notare, e partire da Il Vangelo secondo Matteo, la prossimità con il neo-modernismo progressista (che lamentava un mastino dell’ortodossia gesuitica come Antonio Messineo su La civiltà cattolica). Insomma no, Pasolini lo inquadri intanto da qui: che non lo metti da nessuna parte, perché a tutto fu eretico e di traverso a tutti gli incasellamenti, come una muta in neoprene indifferente al freddo e al caldo che ti tiene a temperatura e tutto si lascia scivolare addosso.
Questo racconta Claudio Siniscalchi nel suo ultimo, agile, saggio: Teorema sessantottino (Ardente edizioni). Del Pasolini di Teorema, soprattutto, e di quando fu presentato, anzi no, al Festival del Cinema di Venezia di Luigi chiarini, “il professore”, in un clima, quello del Sessantotto, fatto di intimi e contraddittori tentativi di mettere a fuoco un mondo qualsiasi, purché differente dalla noia dell’abitudine. Teorema era un film che questi contrasti li aveva in sé. Era un film che doveva raccontare il corrodersi della borghesia. Un film sociale. Che però piacque ai cattolici dell’Ocic. Che anzi lo premiarono, in nome del dialogo con la modernità, quello voluto dal Concilio Vaticano II, di un rinnovamento che doveva pur stare da qualche parte. Lo premiarono per poi pentirsi, dopo il freno a mano dello stesso pontefice e la finale sconfessione del Centro Cattolico Cinematografico. La contraddizione in un film solo, dicevamo. Quello della svolta tra gli esordi neorealistici e i film della maturità. Il film che prima fu presentato ad un’edizione che la sinistra voleva boicottare, per poi annunciare un ritiro che non ci sarà. Pasolini è contestato dagli studenti, dai suoi ragazzi, lo prendono a fischi, non riesce nemmeno a entrare. «Tu sei quello che sta con i poliziotti», gli rinfacciano persino. Pasolini vive sulla pelle la sua epoca, questo Siniscalchi ci racconta con grande efficacia espressiva e zelo bibliografico: «Uno specchio nel quale si è riflessa in modo quasi esemplare la confusione della cultura italiana. Ha patito le tentazioni di Sant’Antonio, i tradimenti di San Pietro, i supplizi di san Sebastiano. E i paragoni non sembrino iperbolici: perché lui questa partecipazione non partecipata l’ha vissuta così. Un’occasione per sentirsi di volta in volta santo, eroe, reprobo o profeta. Per chi l’ha vissuta, con tutti i suoi falsi colpi di scena, le sue false avanguardie, rivoluzioni false, squallido, addirittura desolante il linguaggio, un vuoto sotto la violenza verbale».
Insomma, come nota Alessandro Gnocchi nella prefazione al volume, Pasolini tutto è stato fuorché un innovatore. E questo nulla toglie alla sua grandezza. «Arriva alla fine di una storia, di una stagione gloriosa della cultura italiana, che nasceva in continuità con l’idealismo di Benedetto Croce oppure a Croce reagiva (con rispetto). Era una cultura che conosceva l’importanza della filosofia estetica per la critica anche militante». Tutto questo, oggi, non c’è più.
Foto Domenico Notarangelo | CC BY-SA 4.0