Il 23 novembre 1825 è il giorno dell’esecuzione capitale di Leonida Montanari e Angelo Targhini, condannati al sommo supplizio dopo un processo farsa.
Qualcuno ricorda questi nomi, ai quali la letteratura degli anni successivi avrebbe riconosciuto il titolo di “protomartiri” del Risorgimento. Tuttavia, si sa che la retorica può contribuire a rappresentare immagini sfocate del passato, consegnando alla storia nomi solenni privi di contenuto. È, quindi, necessario raccontare quale sia il motivo per il quale la storia d’Italia debba riconoscere a questi due sventurati giovani uno spazio adeguato nel famedio dell’Italia unita.
Chi erano Leonida Montanari e Angelo Targhini? Il celebre film Nell’anno del Signore vide Luigi Magni ricostruire la vicenda (anche processuale) delle due vittime dell’ingiustizia del tempo, con il coinvolgimento di un cast d’eccezione (Manfredi, Sordi, Tognazzi, tra gli altri), in cui due attori francesi (Robert Hossein e Renaud Verley) indossavano i panni dei due italianissimi patrioti. In quella pellicola il doppiaggio assegnò un arbitrario accento romano e un aspetto tutt’altro che giovane a Leonida Montanari, il cui ritratto è in realtà ben rappresentato da Massimo d’Azeglio nelle proprie Memorie.
Leonida Montanari era nato a Cesena, mentre Angelo (o Angiolo) Targhini era nato a Brescia (da madre cesenate). I due giovani erano entrati in contatto tra loro probabilmente grazie alle comuni origini romagnole. Leonida era venuto al mondo il 26 aprile 1800 in una piccola casa ai tempi nella “periferia” di Cesena, in cui è ancora conservata una lapide recentemente sottratta a un lungo oblio. Fu descritto dagli storici come un giovane leale, determinato e intelligente. Edoardo Fabbri (che lo aveva conosciuto) ne tracciò un commosso ritratto: «era di Cesena, di povera ma onestissima famiglia; in età di soli 24 anni aveva già nome nell’arte chirurgica; era bello come uno de’ più belli italiani». Fabbri scrive anche che il giovanissimo medico «aveva il cuore pieno di gentilezza, d’onore, d’amore della patria». Inoltre, Montanari, pur essendo intriso di idee liberali e progressiste, era un «frequentatore di chiese e di religiosi esercizi», tanto da essere anche indicato da alcune fonti come destinato alla tonaca. Angelo Targhini era nato nel 1799 ed era figlio del cuoco del papa Pio VII, il cesenate Gregorio Chiaramonti. Di lui si sa che aveva studiato presso il Collegio romano dei Gesuiti, ma agli studi dei dogmi della Chiesa aveva preferito la lettura delle opere di Rousseau e Voltaire. Durante gli anni trascorsi presso il Collegio, Angelo aveva maturato una forte avversione per il potere temporale della Chiesa, che riteneva intollerabile. Il giovane Angelo Targhini aveva un curriculum denso di vicende poste all’attenzione delle Autorità, che lo consideravano una “testa calda”. Una personalità complessa – quella del Targhini – così come risulta da vari racconti, da cui emergono ritratti del personaggio contenenti indicazioni diametralmente opposte fra loro. In particolare, Angelo aveva partecipato a una rissa nel 1819, durante la quale era morta una persona: aveva quindi dovuto scontare una pena presso le carceri del Castello di Sant’Angelo. Uscito dalle segrete di quello che era stato il sepolcro monumentale dell’imperatore Adriano, Angelo Targhini era stato trasferito a Pesaro, dove aveva conosciuto il “cospiratore” cesenate Vincenzo Fattiboni. In Romagna aveva aderito alla Massoneria e alla Carboneria, maturando la decisione di ricominciare gli studi interrotti.
In quegli anni a Cesena vi era una proliferazione di società segrete, che nel corso dell’Ottocento furono frequentate da personaggi centrali nella storia d’Europa. Basti ricordare che esistono fonti (erroneamente indicate come “secondarie”) che riportano come Felice Orsini e Napoleone III fossero stati iniziati alla Carboneria e alla Massoneria proprio a Cesena. In sintesi, l’uomo che avrebbe voluto assassinare Napoleone «il piccolo» (così come lo ribattezzò Victor Hugo) non era affatto sconosciuto all’imperatore, dato che i due avevano condiviso la fratellanza iniziatica in Romagna.
Ma torniamo ai due sventurati giovani. Leonida Montanari, trasferitosi a Rocca di Papa per esercitare la professione medica, entrò in contatto con Angelo Targhini. Quest’ultimo aveva fondato a Roma la Loggia Costanza, che aveva affiliato uomini e donne provenienti da diversi ceti. Montanari aderì con entusiasmo al progetto dell’amico e partecipò attivamente ai lavori dei Carbonari romani. In fondo, i due erano intrisi di princìpi liberali e credevano in quello che sarebbe stato definito il “risveglio nazionale”. I due giovani furono accusati, assieme ad altri aderenti alla “setta”, di un attentato avvenuto il 4 giugno 1825 ai danni di Giuseppe Pontini, un carbonaro che sembrava aver tradito la propria “vendita”, trasformandosi in spia ai servizi delle autorità governative. Non è facile ricostruire l’intera vicenda, dato che – dagli atti consultabili – risulta che Angelo avesse condotto il Pontini in un’osteria e il Montanari lo avesse ferito nei pressi della Piazza di Sant’Andrea in Valle, per vendicarsi della scarsa fedeltà di quel “fratello”.
Il processo fu condotto senza il rispetto del diritto di difesa, appositamente per giungere ad una sentenza che stabilisse la colpevolezza di Montanari e Targhini, contro i quali, in realtà, nessuna prova era stata raccolta. I due erano colpevoli solo di essere “cospiratori”, vale a dire di essere portatori di valori incompatibili con il Governo della Chiesa del tempo.
Il Cardinale Giulio Maria della Somaglia, ai tempi Segretario di Stato, scrisse che «all’effetto della pena prescritta dalle leggi, anche per la sola pertinenza ad alcuna delle indicate società segrete, non [sarebbe stata] necessaria la prova strettamente legale, che con gran detrimento di giustizia non potrebbe ottenersi in tali delitti, trattati sempre e commessi clandestinamente […], ma [sarebbe stato sufficiente] quella morale certezza che [avesse rimosso] dall’animo ogni ragionevole esitazione sul delitto e sul reo». In sintesi, la (semplice) presunzione di colpevolezza avrebbe legittimato la pena, pur in assenza di prove. Leonida e Angelo furono condannati alla pena di morte «col taglio della testa», mentre gli altri imputati ebbero salva la vita. Luigi Spadoni di Forlì e Pompeo Garofolini di Roma furono condannati alla «galera a vita». Ludovico Gasperoni di Fusignano e Sebastiano Ricci di Cesena avrebbero dovuto scontare dieci anni in prigione.
Nella Civiltà Cattolica del 1875 (ben cinquant’anni dopo i fatti) si legge che entrambi i condannati alla pena capitale, benché trasformati dalla Massoneria in eroi sarebbero stati «pronti a tutto ed anche a farsi frati, fuorché di espiare il loro delitto comune di assassinio massonico e carbonaro», abiurando la loro fede liberale e «usando somma simulazione». Il compilatore della cinica cronaca, tuttavia, si guarda bene dal raccontare come fosse stato condotto il processo e, soprattutto, decide di attribuire alla “setta” un omicidio, senza ricordare che il Pontini non fu affatto ucciso.
La fine dei due giovani fu orribile: giustiziati in una gremita Piazza del Popolo, furono seppelliti nei pressi del noto “Mura torto”, nella fossa comune dedicata ai peggiori criminali e ai “senza Dio”. L’accusa di aver sposato le idee liberali e di aver aderito alle società segrete non consentiva ai loro resti di essere ammessi all’interno delle sacre mura della Città eterna.
Eppure, il sacrificio dei due «cospiratori contro il governo di Sua Santità» venne compreso da tanti italiani. Angelo Targhini si rivolse alla folla prima di essere decapitato con queste parole: «Popolo, io moro senza delitti, ma moro Massone, e Carbonaro». Leonida Montanari non fu da meno irridendo il boia.
Tra i presenti all’esecuzione, si sparse rapidamente la notizia che il giovane medico cesenate, tanto amato dai suoi pazienti, aveva lasciato scritto sui muri della cella il giorno prima dell’esecuzione, un monito carico di significati ancora attuali: «ascoltare con prudenza, credere con ragione, determinare con giustizia». Fu un ulteriore passo in avanti verso il risveglio delle coscienze. Così, come scrisse Giuseppe Mazzini, «i fiori, seminati sulla terra che copre l’ossa di Leonida Montanari, non erano ancora appassiti, che sorgevano altri martiri a espiare col sangue quei tre secoli di servitù, ed altri fiori educati da mani fraterne sulla terra del loro sepolcro».
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