“Come si può fare, del resto, una repubblica senza repubblicani?” Stendhal, Certosa di Parma
Ora che siamo a 240 anni dalla nascita di Henry Bayle, in arte Stendhal, 2 gennaio 1783, vale sempre la pena di ricordare questo genio della letteratura europea. Nietzsche che ne era appassionato, riteneva Stendhal con Dante, Shakespeare, Goethe il centro di gravitazione culturale della identità del nostro continente. Stendhal entrò a Milano con l’Armata d’Italia nel 1796 e rimase sempre molto legato al nostro paese che conobbe meglio come ambasciatore a Civitavecchia negli anni della restaurazione. Morto nel 1843 non vide il nostro risorgimento e quindi rimase convinto, come scrisse nella sua Certosa di Parma, che sarebbero stati necessari almeno cento anni, era allora il 1839, per fare dell’Italia una Repubblica. Considerato che gli anni furono 109 ad essere esatti, non sbagliò poi di molto. Piuttosto ne potrebbero servire altri cento da quella data per diventare una repubblica compiuta a tutti gli effetti. All’epoca di Stendhal i ministri, complici i magistrati, arrestavano e impiccavano un galantuomo solo per le sue idee se sgradito al principe, che si accaniva nel caso anche sui parenti delle vittime. Se poi qualcuno si lamentava, bene, lo si esiliava o lo si avvelenava. Queste erano le corti italiane prima del 1848, ma in alcuni casi, anche dopo.
Rispetto a quei tempi la Repubblica ha dato al popolo la possibilità di esprimere una libera opinione e quindi di contestare i ministri e i governi non solo per i loro atti ma anche per quello che pensano e dicono. È il consenso popolare a determinare le sorti della politica, non il privilegio di nascita di un principe, ecco il senso della Repubblica. I ministri, ai tempi dell’Italia di Stendhal, una volta diventati ministri, generalmente vi morivano. Una Repubblica capace di sostituirli deve dunque saper valutare bene la differenza fra i loro atti e le loro parole, perché se è vero che i ministri devono essere “servi” del popolo, al contempo la servitù in Repubblica è stata abolita. Un qualsiasi cittadino può sollevare una polemica sull’espressione o il linguaggio usato da un ministro così come sulla politica del governo a cui appartiene, allo stesso tempo, per dare un giudizio equo, occorre preoccuparsi di capire la posizione del ministro e del suo governo, sempre che questi si muovano sulla base della legge, e non dell’arbitrio. Il ministro Lollobrigida ha usato un’espressione piuttosto infelice in occasione di un provvedimento del governo altrettanto controverso, provvedimento che per entrare nella nostra legislazione dovrà comunque rispettare i criteri dei trattati internazionali e le prerogative della costituzione propri del nostro sistema. Non stiamo di fronte ai decreti della presidenza del consiglio, che non si è mai capito che valore avessero. Siamo di fronte ad una modifica parlamentare di un dispositivo di legge. Ci si può benissimo lamentare del ministro e del governo, quindi, non lo si può accusare come invece è stato fatto, di essere “come Hitler”, in quanto Hitler per prima cosa scardinava il sistema legale che gli aveva consentito di arrivarci al governo! Questo era la particolarità di Hitler e prima di lui di Mussolini, su cui dovrebbe riflettere chi professa l’antifascismo, quando si rischia di non capire cosa fosse stato il fascismo. Se poi si vuole anche sollevare un’accusa pesante come quella del razzismo, in Repubblica, occorrono elementi un po’ più provanti di una semplice frase, per quanto sgradevole possa suonare. Altrimenti dovremmo riempire le aule di giustizia più di quanto già lo siano.
La Repubblica ha il pregio, mai evidentemente abbastanza apprezzato, di mostrare una certa indulgenza nei confronti del pensiero individuale e delle sue espressioni, anche nel caso delle vignette popolari, che sovente risultano sgradevoli. Quella che ha fatto tanto clamore apparsa su il Fatto quotidiano è di cattivo gusto, come tante lo sono state. L’unica particolare obiezione di sostanza che le si può rivolgere è di colpire un familiare di un ministro e questo familiare non è personalità pubblica. Non fosse che essendo il familiare moglie del ministro e sorella del presidente del Consiglio, gode di uno stato eccezionale che da solo invita alla satira ed è incredibile che il governo non se ne accorga, o forse si lamenta della ferocia della vignetta proprio perché se ne accorge eccome. Tanto scompiglio conferma il pessimismo di Stendhal, che da giacobino qual era, la Repubblica voleva averla e in una settimana, fatta, autorevole e perfetta. Passati duecento anni quella che abbiamo noi sembra giusto sull’orlo di una crisi di nervi.
Foto Musée Stendhal Grenoble