Pubblichiamo l’intervento di Mauro Cascio alla discussione intorno al libro di Antonio De Simone, Romanzo occidentale. Un appuntamento organizzato presso la Biblioteca di Ateneo dell’Università di Macerata, dagli ALAM e a cui ha partecipato, con la presidente Daniela Gasparrini, anche il Magnifico Rettore John McCourt
Perché Antonio De Simone e perché un filosofo si confronta con un letterato? Perché De Simone ha indagato a lungo i temi della soggettività all’interno degli scenari di crisi presenti nella nostra contemporaneità. «Non sappiamo che cosa ci sta accadendo ed è precisamente quello che ci sta accadendo», è una citazione famosa su cui spesso si ritorna per dire questa miopia della modernità, questo non riuscire a mettere a fuoco niente della realtà che ci circonda che vada oltre l’immediato. De Simone ha una sua genialità in questo, di cercare il volto umano del pensiero, non è un caso che esce da un corpo a corpo con il Rousseau più intimo e privato, quello della biografia, in un testo di qualche anno fa che in maniera significativa è intitolato Le affezioni dell’anima. Genialità è un termine che può risultare ruffiano, ma come chiamare altrimenti questa inventiva felice e sorprendente, questa capacità di entrare dentro i problemi per farci capire che la cultura filosofica non è erudizione, accumulazione di sapere, ma è vita, ti entra dentro, ti scorre, ti abita? E Le affezioni dell’anima ci aiuta a capire la dimensione della coscienza soggettiva, l’introflessione del soggetto che si racconta. Un soggetto in Volponi sradicato, cioè costretto a vivere in un tessuto italiano in un mondo della vita sempre più mercificato. De Simone cita non a caso uno dei suoi maestri, Habermas, e in particolare una sua opera che si intitola in maniera significativa La crisi della razionalità nel capitalismo maturo. Quindi la novità di Romanzo Occidentale, questo è il testo di De Simone di cui ci occupiamo oggi, è che un filosofo riesce a dare pienezza all’onomastica dell’Io di Paolo Volponi. Gli stenogrammi di cui quest’opera si compone ci consentono di avere una approfondita contezza di tutte quelle paure, speranze, novità che compongo la realtà che muove la letteratura e che la letteratura racconta. In primo piano ho l’io, sullo sfondo, come quinta scenica, il rumore del mondo.
Gerolamo Aspri è il protagonista di Corporale, il romanzo più ambizioso e difficile di Volponi, scritto tra il 1966 e il 1974. Gerolamo Aspri è l’Ulisse senza ritorno di una odissea del vivere oggi.
«Non trovo nessun ostacolo etico e la mia cultura è tanto scarsa e duttile che non può essere davvero capace di erigere degli impacci e di proteggermi. Gioco sugli abissi, fissando dall’alto ogni conseguenza, attirato da una gravità che giunge a toccarmi con una sostanza amidosa. È solo la paura che mi trattiene: non la paura di quel che immagino e sento, ma la paura che questo costituisca una realtà nella quale possano esservi leggi oggettive e iniziative indipendenti dalla mia volontà. Sono ormai pronto a cadere in qualsiasi abisso, ma non in uno in fondo al quale altri mi raccolgano e mi leghino e mi impongano un dovere, una pena, o mi dicano soltanto delle parole».
Ed è ancora Gerolamo Aspri a definirsi
«Gustavo un senso corrotto dell’orgoglio. Nell’indulgenza per se stesso, o solo nella convinzione della fiducia in se stessi o nella negligenza dei propri limiti, o per un’impressione favorevole anche se sbagliata o se nata da una circostanza magari casuale e immeritata, la quale intenzione mantiene convinti che uno possa subito trasferirla al futuro, portarla sui più grandi progetti di allora, uno può sospendere tutto e illudersi fino a fare di un momento un tempo, credere di avere grandi mezzi e di potere ritrarsi dalle cose, per decidere di riprenderle quando si sentisse più desideroso e più disposto a goderne con una perfetta determinazione».
Questo Ulisse, questo eroe della soggettività, in Corporale è reso perlopiù attraverso un pensiero monologico. Cioè un pensiero che si dà nella forma e con i modi del monologo. Nell’atto di pensiero il soggetto è attore e spettatore, è lui che produce e assiste. Sono quelle che De Simone chiama le scomposizioni e ricomposizioni del soggetto, dell’io. Manifestazioni della coscienza umana, del sentimento umano dell’esistenza.
Scrive De Simone: «Scrivo per imparare a leggere e comprendere». Solitamente si dice: se vuoi imparare e a scrivere, leggi molto. De Simone ci dice invece l’inverso: scrivi tanto, perché solo lo scrivere ci aiuta a leggere meglio. Ecco in che senso in Romanzo Occidentale noi abbiamo circostanziati esercizi di scrittura, per chiarificare temi, aspetti, problemi che ancora vogliono essere interrogati. E che non sono i problemi di Gerolamo Aspri, di Paolo Volponi, o di Antonio De Simone, sono i problemi che la crisi del nostro presente mette davanti a tutti noi.
Edgar Morin non ha dubbi: «Ora siamo al cuore della crisi e la crisi è nel cuore dell’umanità». Sotto la superficie del presente nella “crisi comune” si appalesa una profonda “crisi del pensiero”. Molti sono i fuochi d’artificio che illudendo di illuminare le nostre vite e i nostri sentimenti poi “ricadono nell’oscurità”. Per Morin la crisi possiede un carattere antropologico ed è nel “cuore dell’avventura umana”. Siamo naviganti nell’infinito in un “oceano di incertezze”.
La catastrofe nucleare non è solo qualcosa che incombe, nella poetica di Paolo Volponi, in Corporale e più propriamente in opere successive come Il pianeta irritabile, ma qualcosa che ha colpito già il nostro tessuto sociale.
La colpa è della nostra economia che non ha sede e ritaglia il mondo a suo piacere e comodità. Questa è una società sgozzata, e anche sventrata: vive respirando forte come una lucertola nella sua vecchia pietra. Sono i temi di Pierpaolo Pasolini quelli di Volponi, leggiamo in Romanzo Occidentale. Due biografie, due vicende umane e storico-culturali, politiche. Due filosofie dell’esistenza. Due cammini di pensiero e di vita.
A me viene in mente il Pasolini di La Ricotta. Quando il regista Orson Welles congeda a malo modo il cronista che lo sta intervistando: «Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio». L’individuo, il soggetto è sempre totalmente sussunto dalla logica del consumismo. Quell’orizzonte da cui cerca di sottrarsi Gerolamo Aspri. E scrive De Simone: «Il lavoro critico si configura sempre più come una micrologia, cioè come interpretazione materialistico-viscerale che tende a svelare come dall’individuo alla società intera il potere omologatore della tecnica e del dominio del capitale abbia alienano e colonizzato ogni aspetto del panorama e della vita umana».
Nel Novecento si è scoperto il Leopardi filosofo. In Romanzo Occidentale troviamo citata la lezione di Remo Bodei. Ma è anche nota la grande rilevanza che ne dà Emanuele Severino. Per Severino Leopardi prepara la filosofia del nostro tempo. La poesia è l’ultima illusione di salvezza offerta agli uomini, oltre il fallace ottimismo alimentato dal paradiso della scienza moderna e della tecnica. Volponi, come Leopardi, ha questo: la capacità di intravedere fenomeni che caratterizzano la nostra epica. C’è un carattere immanente nel pensiero di Volponi e di Leopardi. Nello Zibaldone leggiamo che “l’uomo desidera una felicità temporale, una felicità di questa vita e di questa esistenza”. Non c’è pessimismo in Leopardi ma una filosofia del concreto. Non c’è uno smacco esistenziale ma un naufragare dolce. Una lettura di attenzione al presente che non è solo esistenziale ma anche politica. Gli italiani concentrandosi sul presente godono di esso, senza farsi illusioni. Gli italiani non sono “cittadini” ma “individui” che perseguono con ossessione la soddisfazione di ideali meschini restando abbagliati dal sempre maggiore e apparentemente incontrastato dominio dell’uomo sulla natura. E in questo c’è la modernità di Leopardi. Che legge il Novecento e oltre. De Simone ama questa parola, ne fa spesso uso. Per dirci che un contenuto semantico non è legato al luogo in cui lo troviamo noi, ma va più avanti, è così che riusciamo a cogliere l’attualità delle cose, la loro forza. Quelle di Leopardi e di Volponi sono allora diagnosi. L’Italia è una terra di mezzo, perché non è stata capace di afferrare il futuro, ieri come oggi, e perché sta perdendo o ha perso le sue antiche tradizioni. Gli italiani non hanno più costumi, al massimo abitudini. Per loro tutto è indifferente, oggetto di scherno, perché sempre senza importanza. Non c’è uno spirito nazionale, qualcosa di cui ci si senta partecipi. Gli italiani ridono della vita.
Nella foto da sinistra Mauro Cascio, John McCourt, Antonio De Simone, Daniela Gasparrini