«Voglia Iddio che non si perda la Fede». Questo l’auspicio di Frate Bartolomeo della Pugliola, nella sua Historia miscella Bononiensis, di fronte alle atrocità commesse a Cesena nel febbraio del 1377, durante il “Sacco dei Bretoni”, uno degli eccidi più pesanti di quella lunga e articolata età nota come Medioevo.
Devo premettere che ho sempre pensato che il Medioevoitaliano non sia stato affatto un periodo così cupo come lo si è descritto nei secoli successivi. L’”età di mezzo” fu contrassegnata da indubbi progressi tecnologici, da innovazioni architettoniche, dall’affermazione di modelli sociali, culturali e giuridici incredibilmente vicini ai nostri. Insomma, il Medioevo non dovrebbe essere stigmatizzato in quanto tale, come una età costantemente buia, priva di colori e contrassegnata solo da vicende tristi. In fondo, sarebbe una operazione veramente riduttiva cercare di condurre un periodo lungo ben mille anni agli stereotipi appartenenti alla letteratura romantica e alla storiografia di maniera.
Tuttavia, non si deve dimenticare che in quegli anni si sono succeduti alcuni eventi di una gravità tale da cancellare, in larga parte, quanto di buono fosse stato costruito. In particolare, il XIV secolo fu un periodo in larga parte infausto, contrassegnato da guerre violentissime, da carestie e dal ritorno della peste in Europa.
In quel secolo a Cesena si consumò il “Sacco di Bretoni”, uno dei più efferati eccidi che la storia dell’umanità abbia registrato, che contribuì alla cattiva fama attribuita alla media tempestas.
I tragici eventi avvennero nei primi giorni del mese di febbraio 1377, quando i cesenati si ribellarono ai soprusi delle truppe mercenarie bretoni del cardinal legato Roberto da Ginevra, al soldo del pontefice Gregorio XI, che aveva deciso di rientrare in Italia, abbandonando la cattività avignonese.
Il cardinale Roberto era arrivato a Cesena (fedele al papato) nel novembre del 1376 assieme ai miliziani, prendendo il posto di Galeotto Malatesta, gonfaloniere della Chiesa.
Il legato pontificio era stato accolto con tutti gli onori e con reverenza, a dispetto della fama che lo accompagnava per aver propiziato gravi fatti negli altri centri che lo avevano ospitato. I soldati bretoni erano già stati responsabili di varie stragi nel corso della “discesa” del cardinale ginevrino nella Penisola. Sicuramente, le più grandi nefandezze, prima di riparare a Cesena, erano state fatte nelle campagne dell’alta Emilia e nella città di Faenza, messa al sacco nel 1376.
Quei soldati erano comandati da Jean de Maléstroit, noto in Italia come “Malastracca”, che si era distinto durante la “guerra dei cent’anni”, combattendo contro gli inglesi e servendo i reali francesi: nel 1372 aveva partecipato a importanti operazioni militari in Spagna, dove aveva messo a ferro e fuoco l’Aragona; nel 1376, durante una “pausa” della “guerra dei cent’anni”, era stato ingaggiato da Roberto da Ginevra per prendere parte – assieme ai suoi soldati divenuti “diabolicamente famosi” – alla “guerra degli Otto Santi”, proclamata da Firenze nei confronti del papato.
A differenza di altri centri della Romandiola, Cesena non sfregiò le insegne papali, mantenendo la propria leale amicizia nei confronti delle autorità che rappresentavano il potere temporale della Chiesa. Eppure, anche Cesena venne devastata.
La miccia che provocò l’eccidio nella città romagnola, secondo molti storici, fu una disputa tra i soldati bretoni e i macellai cesenati. Questi ultimi, stanchi di dover sopportare le ruberie e i soprusi dei miliziani, si opposero con vigore alla pretesa dei soldati di non pagare la merce acquistata. Gli Annales Mediolanenses scritti da un anonimo e raccolti da Ludovico Antonio Muratori raccontano di un diverbio nato all’interno di una bottega nel centro di Cesena: ne sarebbe scaturita una rissa durante la quale sarebbero stati uccisi molti soldati.
Le cronache attribuiscono a Giovanni Acuto buona parte delle responsabilità della carneficina, spinto dalla ferocia del cardinal legato Roberto, che chiese di sterminare il numero più alto possibile di cesenati.
Acuto, con i suoi (che formavano la “Compagnia bianca”) fu chiamato dal cardinale per unirsi alle milizie bretoni e punire gli abitanti della città romagnola che aveva osato ribellarsi ai soldati pontifici.
Sembra che lo stesso Acuto avesse domandato al cardinale come ci si dovesse comportare nel corso del sacco. Ma fu proprio Roberto a incitare alle uccisioni indiscriminate. Qualche storico ha cercato di evidenziare un atteggiamento animato da una qualche pietà da parte del capitano inglese, al quale il cardinale aveva ordinato di non fare prigionieri, uccidendo tutti. Giovanni avrebbe cercato di “far ragionare” Roberto, ma senza fortuna.
Drammatica è la narrazione presente nel Chronicon Estense, in cui si rappresenta la mano barbara squartare le donne incinte, per estrarre i feti e colpire con sassi i bambini più piccoli, strappati dalle culle. La ferocia è rappresentata anche da altre cronache, come quella di Sant’Antonino. In particolare, il “santo dell’umanesimo” (così come venne chiamato il prelato letterato) narra di lattanti strappati dalle culle e uccisi sbattendone il capo sui muri, oppure strangolati o ammazzati con le spade.
I morti furono migliaia (molti storici indicano in cinquemila il numero delle vittime e alcuni parlano addirittura di ottomila persone trucidate). Una volta rasa al suolo Cesena, il cardinal legato rimase a controllare la città, o – meglio – quel che era rimasto della città sino al 13 agosto 1377. L’anno successivo la città venne concessa a Galeotto Malatesta, sul cui ruolo nell’eccidio qualche studioso ha espresso dubbi. Quel che è certo è che Galeotto, che da tempo aveva mire su Cesena, sia stato il beneficiario dei tragici avvenimenti, dato che – proprio a seguito della distruzione a opera delle milizie papali -riuscì ad ottenere dal papa il controllo diretto sulla città del Savio.
Ritorniamo a Roberto da Ginevra. Dopo la morte di Gregorio XI, il cardinale protagonista dei fatti cesenati partecipò al conclave del 1378, dal quale il napoletano Bartolomeo Prignano venne eletto con il nome di Urbano VI, di fronte ad una folla di romani che aveva a lungo invocato un nuovo papa italiano. Inizialmente, Roberto accettò il verdetto del conclave, tant’è che i dodici cardinali presenti avevano votato all’unanimità e lo stesso cardinale svizzero si era fatto carico di trasmettere la notizia della nomina del nuovo papa all’imperatore. Successivamente, però, decise di unirsi ai cardinali francesi che avevano cessato di riconoscere come pontefice legittimo Urbano VI. Addirittura, venne eletto dai colleghi francesi papa con il nome di Clemente VII, essendo così indicato come antipapa dalla “linea ufficiale” dei pontefici romani e passando alla storia come il “boia di Cesena”.
Sino all’Ottocento, la memoria della strage rimase viva e, ogni anno, il 3 febbraio, presso il Convento di San Biagio veniva ricordato l’anniversario dell’eccidio. Poi, con il passare del tempo, la memoria di tragici eventi fu destinata all’oblio e, addirittura, scomparve del tutto dai libri di storia, tanto da costringere gli interessati a ricerche faticose.
Non mi risulta che qualcuno abbia mai chiesto perdonoper quanto avvenuto: la Chiesa romana attribuì la responsabilità dei tragici fatti al cardinal legato, che – tuttavia – aveva “fatto giustizia” nel nome del (legittimo) papa Gregorio XI.
Il cancelliere di Firenze, Lino Coluccio Salutati, scrisse una “lettera circolare” a tutti i sovrani europei per denunciare le atrocità volute dal successero di Pietro e, per qualche tempo, la memoria della strage venne affidata alle cronache. Poi, progressivamente, se ne perdettero le tracce.
Il “cercare di dimenticare” fu un buon compromesso, probabilmente anche per accontentare chi si vergognava per la responsabilità dei fatti e chi non aveva voglia di rispolverare le tracce di uno scomodo passato. Ma, si sa che c’è sempre il rischio che la storia si ripeta. E, come scriveva Primo Levi, «tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo».
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