Mi sono sempre vantato di avere avuto nonni antifascisti. Sento la necessità di ricordare la fede mazziniana e libertaria dei miei nonni nel corso delle mie lezioni, quando – dopo aver spiegato quanto avanzata fosse la tecnica redazionale di alcune codificazioni normative del ventennio – avverto il bisogno di chiarire la mia posizione e di riaffermare le mie radici familiari e ideologiche, per sgomberare il campo dagli equivoci. Perché in Italia è così: dopo la fine del fascismo, rivendicare l’antifascismo subisce il fascino della ostentazione, soprattutto quando si avvicina il 25 aprile. E anche oggi assistiamo a questo fenomeno. Il tutto in un tentativo di fissare “paletti” in grado di arginare dubbi sulla nostra onorabilità.
Eppure – bisognerà un giorno ammetterlo senza troppo rossore – molti degli italiani dichiaratisi antifascisti dopo la fine del regime, così candidi non erano affatto. Dopo quella data, intervenne un ricorso indiscriminato alla varechina, nel tentativo di sbiancare un po’ tante camicie nere. Contestualmente, si favorì l’eliminazione di archivi e si bruciarono montagne di carta che potessero testimoniare l’appartenenza di tanti a un mondo che andava cancellato.
Poco commendevoli furono poi gli interventi di alcuni uomini di cultura che vollero affermare una sorta di «diritto all’oblio» ante litteram, tentando di imbavagliare i quotidiani perché non rievocassero episodi “scomodi” della loro giovinezza, quando l’adesione alla Repubblica di Salò, se oggetto di approfondimento da parte dei media, ne avrebbe offuscato il ruolo di icona di una parte politica. E così ci ritrovammo tutti antifascisti e, addirittura, partigiani, pronti a difendere il Paese dagli attacchi di chi, di volta in volta, avrebbe dovuto incarnare il male dell’estrema destra. E questo avvenne non solo quando si presentò la tragedia del terrorismo nero, ma anche quando risultò comodo spacciare oppositori di una parte politica per pericolosi sovversivi postfascisti.
Così, incredibilmente, la cultura mazziniana e la tradizione liberale vennero tacciate di contiguità al pensiero fascista. E accadde anche che uomini che avevano osteggiato sin dalla prima ora l’uomo di Predappio e avevano rischiato la vita combattendo contro il regime franchista, come l’immenso Randolfo Pacciardi, venissero dipinti come neofascisti, solo perché denunciavano il pericolo proveniente da forze politiche vicine, troppo vicine, alle posizioni di Stalin. Ecco, quindi, che oggi sarebbe necessario prendere le distanze da un «antifascismo di maniera», che – con il tempo – ha imposto un nuovo fascismo inteso quale forma di «codificazione del fondo brutalmente egoista di una società», come scriveva Pier Paolo Pasolini negli Anni Settanta.
Del resto, Pasolini o lo si ama o lo si odia, ma forse bisognerebbe leggerlo prima di giudicarlo. Perché – se è vero che qualche bizzarro (sedicente) letterato sta cercando di inserirlo nel famedio della destra, dopo aver estrapolato alcuni passaggi dei suoi scritti avulsi dal contesto – è altrettanto vero che, impietosamente, quell’autore fu capace, più di chiunque altro, di dipingere l’Italia del boom economico in maniera lucida, forte della consapevolezza che l’etica cristiana fosse stata soppiantata da una cultura di massa priva di valori, in grado anche di scardinare le ancestrali suddivisioni in classi sociali. Pier Paolo Pasolini, nella (quasi dimenticata) pellicola Ro.Go.Pa.G. affidò la sua denuncia all’episodio «La ricotta», in cui uno sgradevole e livoroso regista marxista (interpretato da Orson Welles) snocciolava i mali della società italiana al giornalista omologato. Quel Pasolini, in realtà, aveva nei propri geni il germe della “parte sbagliata”, dato che il padre, proveniente da una famiglia “reazionaria”, aveva entusiasticamente aderito al fascismo e portava sul petto la medaglia per aver sventato l’attentato a Mussolini da parte dell’adolescente Anteo Zamboni. E, anche per questo motivo, l’autore di Teorema aveva tutti gli strumenti per contestare quella ideologia, oltre che l’effimera rivoluzione dei sessantottini e l’ipocrisia di una nuova e fallace morale.
Il problema è che – forse – bisognerebbe un po’ abbandonare la vuota retorica che accompagna il 25 aprile (e che non rende giustizia a questo anniversario), strumentalizzata per colpire – di volta in volta – posizioni politiche, governi in carica e persone che, per quanto limitate, magari nulla hanno a che fare con il regime fascista o con l’eredità di quella stagione. Sarebbe indispensabile cercare di spiegare, soprattutto ai più giovani, cos’abbia rappresentato quella data per il nostro Paese e quali siano i valori che non possono non essere condivisi, raccontando l’orrore di un regime che calpestò ogni diritto e ogni aspettativa.
La storia ci racconta le incessanti battaglie dell’uomo, nella difficile ricerca della libertà. Ma, come ci spiegava Kant, se l’uomo non è libero, non ha senso valutare un gesto come morale o immorale. E l’assenza di libertà si traduce in una mortificazione dello spirito umano. E quella libertà (anche di pensiero) fu annientata dal regime da cui ci liberammo nel 1945. È proprio quello un punto fermo da cui dovrebbero partire le nostre considerazioni, superando l’«antifascismo di maniera», recuperando la sostanza delle cose ed evitando strumentalizzazioni e banalizzazioni.
Solo così potremo celebrare degnamente l’anniversario della Liberazione come quella grande festa nazionale, con cui si esalta il momento in cui il nostro popolo, dopo aver vissuto gli orrori del regime autoritario che assecondò le follie del dittatore tedesco, seppe rialzarsi, forte delle proprie tradizioni, della propria ricchezza umana e delle grandi intelligenze che riuscì a esprimere.
Meravigliosa sintesi delle verità che molti, per ignoranza o malafede, non riconoscono, appannando i valori alti della Resistenza e del ricordo della Liberazione.