Le voci che circolano sulla possibilità che “la premier”, come viene chiamata, con buona pace della lingua inglese, possa dimettersi per andare alle elezioni a giugno, vanno prese per quelle che sono, solo voci. Avrebbe dell’impossibile vedere il presidente del Consiglio mollare sua sponte, se non altro perché è il capo dello Stato a sciogliere le Camere. L’onorevole Meloni potrebbe restare ad attendere il voto altri due anni fuori da Palazzo Chigi e vai a sapere cosa succede. Rischierebbe di diventare un Conte qualunque, occupato a mettere il veto all’alleanza con Salvini, piuttosto che con Tajani..
Mentre è perfettamente possibile che l’onorevole Meloni, dopo due anni di salita, si accorga della ben poca distanza compiuta e rimpianga un ruolo in cui si trovava molto più a suo agio, quello dell’opposizione. Una qualche forma di stanchezza era già percepibile, non dal prolungamento delle vacanze estive, ma dal fatto che nessuno sapesse dove il presidente del Consiglio fosse finito e che lei si ripresentasse con un video dicendo di richiamare la protezione civile. L’umorismo di chi non regge più la pressione.
Se la pausa estiva è stata benefica, la ripresa autunnale si è rivelata presto catastrofica. Meloni si è trovata di fronte allo scontro fra Lega e Forza Italia sullo jus scolae, questione estranea al programma di governo e dunque indice del malumore profondo dei suoi alleati. Poi la situazione è degenerata sulla manovra. Era andata a giugno all’assemblea di Confindustria per prendere applausi e si ritrova a ottobre con Giorgetti che le fa prendere i fischi. Per carità, Giorgetti si è corretto e questo è stato pure peggio. Il governo ha completamente assunto il profilo europeista, di quello che vuole rispettare gli impegni con la commissione di Bruxelles, che pure non ha votato e che appena può critica e passi. Il problema è che non sanno dove trovare i soldi. In tutto questo, forse l’opinione pubblica non lo ha ancora messo fuoco, l’esecutivo non ha ancora una pallida idea di come far quadrare i conti. Giorgetti esclusi i sacrifici si è messo a farfugliare. Se pensa di tirare fuori i soldi dai soli ministeri, si prepari a riunire i ministri in una capanna, coperti di stracci e scalzi. Pensare che la passione naturale dell’onorevole Meloni era quella di mandarla a quel paese l’Europa e senza tanti complimenti. I bei tempi della zucchina di mare. Quando ha sentito il discorso di Orban a Bruxelles, la sarà venuta la pelle d’oca dall’invidia, i lucciconi agli occhi belli.
Poi si è vista la kermesse di Pontida con il manifesto leghista che recitava “Salvini premier”. Nemmeno quello le hanno risparmiato. Perché il governo Meloni sembrava il nemico a Pontida, Salvini piuttosto che ministro è un prossimo carcerato e Giorgetti è stato accolto come l’imperatore a Canossa. Sono il figlio di un pescatore, di un’operaia, mica un ministro del governo Meloni. Poveraccio. Puoi stare al governo con gente così? Ti spacchi tutto il giorno e poi devi guardarteli in faccia. Almeno l’onorevole Meloni credesse all’autonomia differenziata, lei che era pure contraria alla riforma del Titolo V.
Poi c’è il capitolo interno al suo partito. L’unica di cui si fida è la sorella Arianna. Aveva come amico Crosetto e quello vuole rispondere al fuoco ad Israele, cambiare le regole di ingaggio. Come se Crosetto fosse entrato in Hezbollah. Non ne possono più di Zelensky e ancora ce l’hanno tra i piedi. Se poi vincesse le elezioni la Harris, sai la figura del governo italiano che ha tifato per Trump. Metti insieme tutto questo e l’onorevole Meloni avrebbe ragioni di ritirarsi dalla vita politica, altro che lasciare Palazzo Chigi.
Resterà al suo posto, difendendolo finché sarà possibile. E in fondo non si potrà dire nemmeno che è colpa sua se il governo ha preso questa deriva dissolvente. Metti insieme l’opposizione e non trovi un’alternativa spendibile, anzi, forse peggio. Tutto merito del sistema maggioritario che presumeva di comporre fra loro identità antitetiche sotto una stessa bandiera chiamata programma. L’importante è vincere e lo diceva persino un grande intellettuale come Bruno Visentini, che ricordava la Spagna del ’36, dove pure si perse. L’arte di governo non era più ponderata. Sembra giusto l’ultima foglia su un albero di autunno.
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