Se c’è una cosa sicura è questa: tutti usiamo la parola libertà ma tutti ne diamo un significato diverso. E questo ci porta a immaginare di essere d’accordo su cose che dovrebbero dividerci ma, più tipicamente, a dividerci sulle cose che in teoria dovrebbero vederci d’accordo.
La recente iniziativa che ho fatto con Pierluigi Valenza è stata anche l’occasione per tornare su alcuni suoi vecchi studi, incluso uno straordinario sulla filosofia pratica nello Hegel di Jena. La libertà dell’articolazione sociale è uno dei tanti temi affrontati. Una prima idea di libertà a cui Hegel non crede è quella tra due opposte determinazioni: devo scegliere tra A e B. Aut Aut. Ma questa libertà di scelta è una libertà empirica, un arbitrio. L’obiettivo polemico è Fichte e la sua idea di una libertà assoluta che, nel suo divenire concreta, verrebbe limitata. Questo tipo di libertà Hegel la chiama “assoluta”, o “naturale” o ancora “originaria”, intendendo sempre che ci sia una possibilità prima della sua determinazione, del suo farsi concreta. Un altro obiettivo polemico è il concetto di libertà nelle teorie contrattualistiche dello Stato, in cui io prendo un uomo naturale investito di infinite possibilità di scelte che decide di limitare questa sua libertà per far fronte allo stato naturale (comunque lo si concepisca: pericoloso à la Hobbes, o corrotto da una originaria bontà, à la Rousseau). Il Covenant è la soluzione al problema formulato da Rousseau: «Trovare una forma d’associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti gli altri, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima». Queste teorie hanno spesso sullo sfondo la teorizzazione di un “diritto di resistenza” al potere costituito da parte del corpo sociale che lo origina. Fichte arriva a immaginare un istituto di controllo: l’eforato. Hegel però è scettico sulla sua efficacia, non essendoci nessuno che si possa effettivamente porre come arbitro e rischiando sempre la vita pubblica la paralisi.
Hegel immagina invece la libertà come l’assoluto. La libertà così esclude il fissarsi di determinatezze. «La libertà è indifferenza, l’individuo libero è indifferente rispetto alle determinatezze poste in lui». Indifferenza non è essere sollevato al di sopra delle determinatezze, dice Valenza, “l’indifferenza è sintesi, sintesi che consiste nella negazione delle determinatezze e della singolarità”. «Questa negazione però è toglimento, è riportare le determinatezze a un livello superiore, quello dell’organizzazione come “totalità”, “elemento positivo dell’eticità”». Questa indifferenza fa l’individuo etico e grazie a questa indifferenza l’ “organizzazione”, la “totalità”, cioè la comunità, è essa stessa etica.
«Il colpevole è libero nella misura in cui la legge lo può riconciliare con la vita, nella misura in cui avendo ciò che gli spetta supera il proprio interesse, quello di sfuggire alla pena, e si sottopone all’azione dell’intero violato». E in questo ci si affida alla capacità del Giudice di “attenersi all’intero”, cosa che il Giudice fa grazie alla “immediata intuizione etica”. Qui Hegel pensa al phronimos, non credendo che le leggi possano essere veramente universali, facendo riferimento al Politico di Platone: «La cosa migliore – scrive Hegel – è però non che abbiano forza le leggi, ma l’uomo che è saggio e regale, perché la legge non è in grado di prescrivere alla perfezione ciò che sarebbe più adatto e giusto nel modo più preciso e del tutto universalmente».
Nella Foto un momento di un incontro presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Da sinistra: Gabriella Baptist, Mauro Cascio, Pierluigi Valenza, Antonio Pirolozzi