«Si ricordi pure che fintantoché l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella di Vostra Maestà saranno una chimera»: rivolgendosi a Napoleone III, così scriveva Felice Orsini rinchiuso nelle carceri parigine dopo aver attentato alla vita dell’imperatore dei francesi. Napoleone “il piccolo”, come lo soprannominò Hugo, riuscì a salvarsi, ma il 14 gennaio 1858 Parigi fu profondamente scossa dal lancio di alcune bombe rudimentali, che provocarono una strage di innocenti.
Nato nel 1819 a Meldola, a pochi chilometri da Forlì (la città di Aurelio Saffi), Felice Orsini era figlio di un ex ufficiale che aveva combattuto al seguito di Napoleone durante la campagna di Russia. Gli era stato imposto anche il nome Teobaldo, in onore del santo protettore della Carboneria, cui il padre aveva aderito. Sin da giovanissimo, Felice aveva mostrato vivacità e irrequietezza, procurandosi un bel po’ di beghe per il suo comportamento, decisamente sopra le righe. Aveva ucciso un uomo all’età di sedici anni, forse per disgrazia. Dopo pochi mesi dalla condanna, era stato liberato dal carcere, avendo manifestato l’intenzione di entrare nella Compagnia di Gesù. Completati gli studi universitari, era divenuto avvocato. Dopo aver aderito alla “Giovine Italia”, nel 1844 Orsini aveva fondato la “Congiura Italiana dei figli della morte”, un sodalizio segreto e rivoluzionario, con conseguente condanna a vita nelle carceri di Civita Castellana, dalle quali era uscito nel luglio 1846 grazie all’amnistia concessa da Pio IX. Colpito dalla personalità di Mazzini, il romagnolo era stato eletto nel 1849 deputato all’Assemblea Costituente della Repubblica Romana.
Arrestato dagli austriaci nel 1855, riuscì a evadere dal castello di Mantova nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1856, per poi riparare a Londra. Nella capitale inglese conobbe il medico Simon François Bernard, che gli propose un attentato a Napoleone III: togliere di mezzo quel sovrano avrebbe consentito di eliminare il migliore sponsor del tempo del potere temporale della Chiesa, con l’inevitabile conseguenza di favorire l’unità d’Italia. Del resto, Orsini aveva vissuto l’assedio di Roma a opera del generale Oudinot, a capo delle truppe francesi inviate da Napoleone III, ai tempi presidente della Repubblica francese. Il giovane avvocato di Meldola, quindi, non poteva che vedere in quell’uomo il mandante dell’azione che aveva impedito di tenere in vita la Repubblica Romana, la prima forma di stato moderno nella Penisola: Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, che sarebbe diventato addirittura imperatore con il nome di Napoleone III.
E qui si ferma la storia ampiamente celebrata da tante cronache. Permangono i dubbi sulla figura di Felice Orsini, da alcuni acclamato come un patriota coraggioso e da altri condannato come un terrorista divenuto esempio per le successive azioni dinamitarde. Non a caso Renato Cappelli ha dato alle stampe nel 2019 un interessante volume dal titolo L’eredità di Felice Orsini. La nascita del terrorismo occidentale?.
Ripercorrendo i fatti del 1858, ho provato il desiderio di approfondire le relazioni tra Orsini e Napoleone III, analizzando alcuni vecchi testi. Sono noti i rapporti tra l’Orsini e il nipote del “grande corso” a seguito dell’attentato, soprattutto grazie alle due lettere indirizzate dall’italiano al sovrano, dopo l’arresto. Nella prima lettera l’attentatore pone il problema degli equilibri tra i Paesi europei, evidenziando la necessità di rendere l’Italia indipendente o di stringere le catene con cui l’Austria l’ha resa schiava. Quindi, scongiura l’imperatore di rendere all’Italia “l’indipendenza che i suoi figli hanno perduto nel corso del 1849 per colpa dei Francesi”, con una ammonizione finale: «Vostra Maestà non respinga la voce suprema d’un patriotta (sic) che sta per salire al patibolo. Vostra Maestà liberi la mia patria, e le benedizioni di 25 milioni di cittadini lo seguiranno nella prosperità». Nella seconda lettera, Orsini esprime pentimento per il gesto, chiarendo come l’assassinio non rientrasse nei suoi principi, essendo stato condotto all’organizzazione dell’attentato “per un fatale errore mentale”, sino a offrire il proprio sangue in sacrificio per le vittime del 14 gennaio.
Altrettanto celebrato fu il colloquio tra Napoleone III e il suo attentatore, svoltosi in carcere. Infatti, dalle rivelazioni pubblicate nel 1874 dal Giornale di Firenze si apprese che Napoleone III era andato a far visita in prigione a Orsini e, secondo quanto riportato da alcuni storici, quella occasione rappresentò una svolta nei rapporti internazionali, con l’impegno del francese di sposare appieno la causa a favore dell’indipendenza italiana. Del resto, basti pensare che il futuro Napoleone III si sentiva anche un po’ italiano, dato che all’età di quindici anni si era trasferito a Roma, dove aveva dato prova di uno spirito libertario. Il fratello maggiore, Napoleone Luigi, era morto a Forlì, dove si trovava per aver partecipato ai moti per l’indipendenza italiana.
Esistono, però, anche fonti (poco conosciute) che consentirebbero di affermare che il meldolese e l’imperatore si conoscevano da tempo. Felice Venosta, riportando le indicazioni del conte di Las Cases, ricorda che le famiglie Orsini e Bonaparte erano lontanamente imparentate. Addirittura, il nome del fondatore del Primo Impero sarebbe derivato da alcuni rappresentanti del casato Orsini di nome Napoleone, tra cui un cardinale morto ad Avignone nel 1342. In particolare, sembra che Felice Orsini e Carlo Luigi Napoleone Bonaparte fossero stati introdotti nella Carboneria assieme, in terra di Romagna e, più precisamente, a Cesena. Quindi, l’imperatore e l’uomo che lo avrebbe voluto assassinare si conoscevano e bene, avendo fatto parte insieme della Vendita di Cesena.
Nell’opera (anonima) Come si è fatta l’Italia, stampata a Torino nel 1892, si attribuisce a Giacomo Andrea Orsini, padre di Felice, il “merito” di aver aggregato alla Carboneria cesenate quello che sarebbe diventato l’imperatore dei francesi. L’attentato fu una occasione per Napoleone III per recuperare lo spirito giovanile: «raffreddatosi per la causa rivoluzionaria d’Italia, fu tolto di sonnolenza dalla bomba Orsini».
Nelle Memorie documentate: per la storia della rivoluzione italiana pubblicate nel 1881, lo storico cattolico Paolo Mencacci indicò l’imperatore francese come una sorta di “esecutore testamentario” di Orsini, al quale avrebbe confermato gli impegni assunti in gioventù a favore della causa italiana, promettendo impegno per favorire l’indipendenza della Penisola. Il tutto, secondo la ricostruzione, era dovuto alla fratellanza che si era stabilita tra i due: il presidente divenuto sovrano e lo sventurato patriota che avrebbe voluto eliminare il maggiore ostacolo all’unità d’Italia. Ma poi, come noto, proprio l’imperatore dei francesi si trasformò nel maggiore alleato dei Savoia durante la seconda guerra d’indipendenza.