La prima cosa che dovrebbe fare un governo che ha cuore la salute pubblica quando si tratta di Rai, invece di nominare questo al posto di quello, sarebbe di pretendere il bilancio dettagliato dei programmi in corso. La sola notizia dello share di un programma non è sufficiente a giudicarlo anche in attivo. Bisogna capire se una tale percentuale di share incida ad esempio su una eventuale ripartizione del canone. Perché se ripartisci il canone in base allo share di una trasmissione, non ci vuole niente a mandare in attivo un programma di successo, che magari senza il canone, nonostante l’apprezzamento del pubblico, gli introiti pubblicitari, sarebbe comunque in perdita. Se invece la Rai ha davvero dei programmi capaci di guadagnare ben due milioni di euro all’anno in più di quanto costano, allora scorporiamoli completamente dal canone, lasciamoli a bullizzare il mercato ed il canone si usi per investimenti in nuovi programmi, che magari non fanno un soldo bucato, ma hanno un qualche indirizzo educativo. Nessuno ne parla più, ma la Rai originariamente era stata concepita come servizio pubblico, non per dare lavoro ai funzionari di partito e ai congiunti, ma per svolgere una funzione educativa nei confronti di una popolazione uscita dalla guerra e dal fascismo.
Una Rai sana dovrebbe essere priva del canone, o priva della pubblicità. Per la verità c’era anche una legge a riguardo. Se ci vuole Mosè per compiere una scelta tanto drastica, un onesto governo che vuole cambiare le cose, ovvero non avvinghiarsi dal primo momento nella pratica lottizzatoria e spartitoria dei suoi predecessori, potrebbe per lo meno porsi l’obiettivo di ridurre il canone e la pubblicità. Questo significherebbe contenere le spese. Qui lo si scrive dal 1987. Che bisogno c’è di avere tre reti e tre telegiornali quando la qualità è così scarsa? All’epoca il presidente Manca rispondeva che c’erano tre grandi partiti ognuno dei quali forniva uno spicchio di verità. E premesso che sulla base di una simile dichiarazione il presidente Manca sarebbe dovuto essere arrestato, per lo meno c’erano tre partiti che avevano una qualche idea dell’Azienda. Adesso c’è qualcuno nel consiglio di amministrazione della Rai preoccupato della qualità della programmazione? E ci si ritiene soddisfatti? Se i quiz televisivi hanno questo straordinario successo di pubblico, fateli sostentare dalla pubblicità in una rete apposita e si abbassi il canone privandone quella rete che raccoglie la pubblicità. Ma così rischia il fallimento. Appunto. Per l’informazione e la cultura basta una sola rete pubblica. Per lo show business ci vuole il business.
Sarebbe opera molto complessa accusare le televisioni commerciali della decadenza della Rai come televisione pubblica, perché il lato commerciale ed il lato pubblico di un’azienda non necessariamente trovano una qualche intesa soddisfacente. Una ragione per scorporare la programmazione dell’Azienda di Stato, senza chiedere di rinunciare agli introiti pubblicitari. Però che ci si finanzi solo da quelli. È un esito più disperato, che paradossale quello per cui un’azienda che si è sentita minacciata dal primo momento dall’affermazione delle televisioni di Berlusconi, sia diventata principalmente una replica di quel modello e a distanza di tanti anni, ancora non se ne è resa conto. Mai un soprassalto di orgoglio. Il risultato? La polemica. Infinita e principalmente volta a sistemare gli amici degli amici, degli amici ed eliminare presunti nemici. Ma ci si rende conto? La classe dirigente del paese che si preoccupa delle opinioni di un anchorman televisivo. Come se in America alla Casa Bianca ci si fosse preoccupati delle opinioni di Ed Sullivan. Come se Fanfani si preoccupasse delle opinioni di Mike Bongiorno.
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