Che i russi abbiano un qualche problema di comprensione della realtà lo si deduce dai romanzi di Dostoevskij. Raskolnikov era capace di qualsiasi crimine perché un prodotto delle influenze occidentali ispirate da Bonaparte. Per la verità Bonaparte non ammazzò vecchie ad accettate e se salvò la Repubblica con la mitraglia a Vendemmiaio, non fu comunque responsabile della precedente morte del re. Al limite gli si può imputare l’omicidio di un nipote dei Borbone, il duca di Engien, poco più giovane di lui che pure avrebbe volentieri graziato. Niente in confronto a chi si macchiò di parricidio per assurgere al trono. Lo zar Alessandro fece uccidere il padre. Come si fa a condannare moralmente Bonaparte e ignorare Alessandro se non perché russo e mistico controrivoluzionario come Dostoevskij? Dostoevskij se la prende solo con Bonaparte. In compenso la politica russa ha sempre seguito le orme di Alessandro. Lo zar Nicola venne ucciso senza nemmeno un processo a seguito di un colpo di Stato, perché sarebbe anche ora di chiamare l’Ottobre per quello che era veramente, un golpe, non una rivoluzione. Che dire allora di Stalin? A rigore di logica storica è debole l’ipotesi dell’infarto, soprattutto considerando la minaccia rivolta alla sua cerchia più ristretta quando venne fatto inserire lo stesso Molotov nelle liste di proscrizione. Se Stalin era disposto a sacrificare anche il leale e fedele Molotov, chi si sarebbe mai salvato? Non c’è nemmeno un referto medico a favore dell’infarto, tutti i medici che soccorsero Stalin nella sua dacia vennero fatti sparire, con loro i domestici, i cuochi, gli autisti, il mobilio, gli addetti alla sicurezza, i responsabili delle sparizioni, e poi persino Berja, che aveva organizzato meticolosamente tutto. Si salvò solo la cameriera personale di Stalin, una contadina analfabeta a cui fu data una lauta pensione.
Non è che Putin al Cremlino si possa sentire poi in una botte di ferro. Passa il tempo a cambiare generali, sostituire oligarchi suicidi, cercare informazioni attendibili. Neanche l’attentato al ponte che collega la Crimea alla Russia possiede una matrice così certa. E sono gli americani a dire che la Dughina è stata fatta saltare per aria dagli ucraini, non i russi. Nel dubbio Putin ha pensato di mostrare i muscoli, sparando più di ottanta missili contro tutte le città ucraine raggiungibili, inclusa Kyiv. La domanda è perché non l’ha fatto prima, perché subire un’avanzata militare ucraina per decine di chilometri quadrati senza reagire, aumentando il malumore di Kadyrov, le incertezze di Medvedev, gli unici che davvero lo sostengono, insomma. Perché militarmente sparare questi missili non serve a niente, ha solo uno scopo intimidatorio, privo di qualsiasi obiettivo strategico. La metà vengono intercettati, i restanti cadono nei parchi giochi, su palazzi abitati da vecchi, in mezzo alle strade a spaventare i passanti. L’unico effetto che hanno è quello di rinforzare l’odio del popolo ucraino nei suoi confronti.
Dispiace per i profondi sentimenti pacifisti che vigono anche in Italia. Essi meritano tutto il rispetto per l’umanitarismo da cui sorgono, ma non è Zelenskj a dover essere fermato, come ha scritto la collega Gabanelli in un suo twitter. È la popolazione ucraina a non volere la pace con i russi fino a quando un solo russo resterà sulla loro terra, da Mariupol a Sebastopoli. Possiamo benissimo smettere di dar loro le armi, soprattutto noi italiani che li riforniamo di pistole e qualche fucile. Gli ucraini combatteranno con i sassi. E questo è quello in cui può solo più sperare Putin nella situazione in cui si trova, ridurre gli ucraini a combattere con i sassi.
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