Ci sono due questioni intorno ad Hegel che sono caratteristica di tutti gli studi hegeliani. Da dove entrare nel suo Sistema, cioè qual è il punto di ingresso al complesso corpus dei suoi scritti. E dove mettere l’accento, cioè quale aspetto, se c’è, va privilegiato rispetto al resto e se esso costituisca o meno criterio esegetico per tutto il resto. I celebri corsi di Alexandre Kojève, in piena Hegel renaissance, e gli studi di Eric Weil non si congedano da questa necessità. Ma hanno un’urgenza in più, bene evidenziata da Edoardo Raimondi nel suo recente studio, profondo e documentato, Hegel tra Alexandre Kojève ed Eric Weil (Mimesis): è possibile ancora capire, con Hegel, la ragione d’essere fondamentale della storia, della filosofia e della politica? Due approcci che partono da premesse simili, qualche volte nemmeno tanto, per arrivare a esiti interessanti, e a volte opposti.
«Se Kojève, seguendo le tendenze dominanti della rinascita degli studi hegeliani in Francia, ha privilegiato in modo evidente le elaborazioni jenesi, Weil piuttosto si è preoccupato di rivalutare lo Hegel del sistema compiuto, e cioè quello della maturità. Ancora: se la lettura hegeliana di Kojève è rimasta caratterizzata da un ‘platonismo’ a fondo cristiano, quella di Weil è evidentemente segnata da un ‘aristotelismo’, per così dire posthegeliano. Non è un caso, del resto, che laddove Kojève ha ricondotto il movimento del Geist alla realtà propriamente umana attraverso la rilettura dell’ontologia hegeliana in chiave dualistica, Weil (criticando le ‘astrazioni esistenzialistiche’) ha riaffermato la valenza di un’ontologia monista – d’altronde il problema teorico fondamentale restava quello del significato e della funzione della negazione determinata. Si intuisce […] perché gli esiti delle due interpretazioni hegeliane abbiano finito per divergere radicalmente. Se Kojève ha visto la prova di verità della fin de l’historie nella compiuta realizzazione dello Stato moderno (napoleonico), Weil ha ricompreso la ragion d’essere stessa della ‘fine della storia’ sancendo la possibilità di un dopo Hegel diverso da Hegel: il filosofo tedesco, piuttosto, lungi dall’aver decretato la forma eterna dello Stato, avrebbe messo in luce quei problemi teorico-politici che avevano determinato i limiti della sua epoca».
La fine della storia, certo, fa problema di per sé. Già Koyrè aveva evidenziato che “la filosofia hegeliana, il ‘sistema’, sarebbero possibili solo se la storia fosse terminata, se non ci fosse più futuro, se il tempo potesse fermarsi”. Il tempo deve concludersi, l’ “inquieta tensione dell’istante” va soppressa; un presente che quindi si fa definitivamente “vittorioso su quel passato che ingloba e rende presente: ancora una volta questo tempo non è quello delle formule e degli orologi, ma il tempo storico, essenzialmente umano”. «Kojève, al contrario di Koyrè, andò fino in fondo: la fin de l’historie, presa alla lettera, non poteva che implicare l’esaurimento della vera negatività agente, dunque dell’uomo propriamente detto. Era la riconciliazione definitiva, tra soggettività ed oggettività, tra tempo ed eternità, tra uomo e natura. Nel Kojève lettore di Hegel, però, tutto ciò non avrebbe potuto che comportare il raggiungimento dell’eguaglianza universale delle condizioni sociali nello Stato universale e omogeneo, in cui non si sarebbe dovuto più negare alcunché. L’uomo, ormai, era pienamente soddisfatto di sé e della propria vita». Questo è “l’interramento della verità nel tempo storico” e la realizzazione di quell’Assoluto che, ad ogni modo, “avrebbe finito ancora per mostrarsi ‘immobile quanto il suo essere’”.
Quindi, lo Stato moderno. Per Kojève per arrivare alla libertà concreta, allo Stato napoleonico, era necessario attraversare un’unica tappa: il terrore. «Il concetto di libertà assoluta, animatore di quei moti rivoluzionari, restava figlio dell’illuminismo, dunque dell’intellezione pura – quella che diede luogo all’universo della cultura con l’affermazione della nozione di persona, che deve essere riconosciuta nella sua inviolabile universalità; vale a dire nella sua dignità, nei suoi diritti ancora intesi come naturali e all’insegna di principi formali quali giustizia, uguaglianza e fraternità. A predominare, pertanto, era ancora l’atteggiamento intellettualistico: la libertà di cui si proclamava l’assoluto valore restava pur sempre relegata nella sua forma puramente astratta. La particolarità dell’Io si innalza così immediatamente all’universale che, di contro, non può concretizzarsi veracemente nella realtà. Tale forma di astrazione, tale mancanza di mediazione tra il particolare e l’universale avrebbe rivelato, di conseguenza, il vero carattere di una libertà soltanto dichiarata; essa si sarebbe andata a configurare come puro arbitrio, come tentativo di imposizione violenta da parte di volontà altrettanto arbitrarie e non riconoscentesi effettivamente nella loro reciproca universalità. È a tal punto che si perviene al terrore, generato dallo scontro tra fazioni rivoluzionarie contrapposte. Siffatto momento del procedere storico-universale, tuttavia, si mostra nella sua intrinseca necessità, dal momento che solo attraverso quest’ulteriore travaglio del negativo si sarebbe potuti approdare – grazie al superamento dialettico dell’intelletto nella ragione – alla singolarità; all’unità, cioè, del particolare e dell’universale, all’universale concreto, allo Stato insomma, incarnato dall’individuo Napoleone». Ci può essere uno Stato perfetto? Per Hegel sicuramente no, il filosofo di Stoccarda, come Kojève ricordò nelle sue lezioni, sapeva benissimo che non può darsi nella storia uno Stato realizzato nel senso più pieno e vero: noi possiamo trovare, nel tempo dove lo Spirito si dà, solo il germe di questo Stato e, al massimo, le condizioni necessarie alla sua fioritura.
In Weil noi non abbiamo nessuna kojèviana fine della storia. Il movimento dialettico dello spirito non si ipostatizza in modo definitivo in un prodotto qualsiasi, finito, particolare. Non ci sono Istituzioni definitive. «Lo spirito, nella sua oggettività, non fa altro che mostrare l’attualità di una determinata realtà storica come problema, in quanto aperta alla perpetua estrinsecazione di senso. Il pensiero non precede questa realtà: essa può essere compresa solo “al calar della notte”, nel momento in cui la forma che le ha dato vita “è invecchiata” e un nuovo mondo storico sta per apparire: quest’ultimo atto di ciò che dialetticamente è potenza». La filosofia, per questo, arriva sempre dopo a comprendere, non predice, non profetizza, ma interviene a cose fatte. E ogni popolo può incarnare il culmine di uno sviluppo, ma non esserne investito in modo ultimo e definitivo: sarà lo sviluppo stesso ad abbandonare quel popolo al suo destino e alla sua condanna.
Foto Marco Lazzaroni | CC BY 2.0
Grazie mille alla rivista e all’autore della recensione, che scopro solo ora.
Un caro saluto
Edoardo Raimondi