Di Émile Benveniste (1902-1976), ossia di colui che è stato senz’altro il più grande linguista del Novecento, sono uscite, in edizione italiana, le sedici lezioni dell’ultimo corso da lui tenuto al Collège de France, poco prima che, nel dicembre del 1969, un ictus cerebrale lo privasse per sempre dell’uso della parola (Lingua e scrittura. Ultime lezioni. Collège del France 1968-1969, a cura di N. Di Vita, Neri Pozza, Vicenza 2023, pp. 176). Si tratta di una riflessione – del tutto assente, fino a quel punto, nel linguista francese – che si incentra, fondamentalmente, sulla scrittura, la cui comparsa viene da lui vista come un «qualcosa di prodigioso», come «una vera rivoluzione»: quella che, cambiando completamente il volto della nostra civiltà, è stata la «più profonda che l’umanità abbia conosciuto dopo la scoperta del fuoco».
Ma procediamo con ordine e partiamo da una distinzione, che corrisponde a quel taglio che scinde in due il corpo della lingua, la cui formulazione sta al centro dell’opera di Benveniste: quella fra semiotico e semantico. Ebbene, se il primo, indicando il modo generico di significazione proprio del segno linguistico, lo costituisce come unità e come pura identità con se stesso, il secondo rimanda, invece, a quel modo specifico di significazione che è proprio del discorso, ossia a quel piano in cui la lingua si dà come produttrice di messaggi, il cui senso è di più di un’addizione di segni da identificare separatamente. Perciò, mentre il semiotico va semplicemente riconosciuto, il semantico deve essere, invece, compreso, visto il significato nuovo che esso ci apporta. Articolando ulteriormente ciò che qui è in gioco, possiamo dire così che, da un lato, abbiamo Saussure – cui si dirigono le critiche di Benveniste – che rimane fermo a una concezione, «in fondo immobilista, del “segno” come unità, e ciò perché cercava giustamente gli elementi primi della lingua», dall’altro, la scoperta che il senso, semanticamente inteso, è irriducibile a una tale concezione, in quanto, rispondendo al principio della linearità, è il «prodotto della messa in forma consecutiva di quei costituenti che sono le parole».
Ora, se, alla luce di questa distinzione, la linguistica di Saussure non esorbiterebbe mai dall’universo chiuso in se stesso della funzione semiotica, grazie all’individuazione della funzione semantica, Benveniste darebbe risalto, piuttosto, all’attività del locutore che mette in atto la lingua: a quest’ultima in quanto si esplica qui e ora, in situazioni concrete, nel contesto vivente di chi parla e di chi ascolta. E siamo così al problema che più di tutti ha occupato la riflessione del linguista francese: quello dell’enunciazione, come momento in cui la lingua, in quanto apparato formale, si converte, appunto, in discorso.
Venendo alla scrittura, una lunga tradizione l’ha confinata a essere un semplice reduplicato segnico della parola. Così in Platone, dove le parole, una volta scritte, smettono di significare, diventando segni del tutto esteriori, interamente sganciati da un io che le pronuncia e da un tu che le ascolta. E così anche in Saussure, dove la scrittura, non godendo di una dimensione autonoma, si fa carico dell’unica funzione di rappresentare le parole. In tal senso, quest’ultimo definisce la scrittura come una forma secondaria della parola, dove la lingua viene rescissa dal suo impiego vivente e concreto. Del tutto all’opposto, Benveniste, attribuisce alla comparsa della scrittura – come scrive la curatrice del volume – «un inatteso valore rivelativo», dove, ad acquistare risalto, «sarebbe, in qualche modo, il linguaggio stesso, posto d’un tratto di fronte al suo parlante». È così che tutte le raffigurazioni pittoriche primitive (pitture rupestri, pittogrammi, ideografie) diventano scrittura solo a una condizione: quando l’interesse non si dirige più verso le cose da dire, ma a elaborare, piuttosto, un’immagine della lingua stessa che le dice.
Ne discende che si deve unicamente alla scrittura se la lingua si è costituita come quel sistema di segni che è, ossia se essa, rappresentando se stessa, si è potuta configurare come una realtà autonoma e come un organismo significante: come l’unico «capace di descrivere se stesso nei suoi propri termini». E tutto ciò attraverso un’operazione di dislocazione sensoriale che ha fatto sì che il linguaggio si spostasse dal sistema primario voce-orecchio a quello secondario mano-occhio, dove, mentre il primo svolge la funzione di trasmettitore che traccia le lettere, il secondo la funzione, invece, di ricettore che legge, raccogliendo le tracce scritte. Benveniste definisce una tale operazione come un’«auto-semiotizzazione» della lingua e afferma: «La scrittura è stata sempre e ovunque lo strumento che ha permesso alla lingua di semiotizzare se stessa», dove «semiotizzare» significa, appunto – scrive ancora la curatrice del volume –, «mostrare i segni», ossia «definire, cioè far esistere e rivelare, oltre la parola, una “lingua”».
Fra tutte le forme di scrittura, Benveniste presta attenzione, inoltre, in particolare, all’alfabeto, la cui invenzione porterebbe a compimento quel processo che egli chiama di «letteralizzazione» della lingua, nel senso che la scrittura, dopo che è diventata mezzo di rappresentazione del discorso, diventa mezzo di rappresentazione dei suoi elementi, e poi ancora degli elementi dei suoi elementi (suoni/lettere). Ed è questo anche il momento in cui la lettera, inscrivendosi, una volta per tutte, nella voce umana, determina, per il tempo a venire, non solo il nostro rapporto con il linguaggio, ma anche lo statuto stesso della scienza che si occupa di esso.
Foto Robert Braithwaite Martineau, Lezione di scrittura di Kit (da The Old Curiosity Shop di Dickens), 1852, olio su tela, cm 52×70, Tate Gallery, Londra | CC0