Perché mai stupirsi se il primo embrione di Repubblica sorta nell’Italia dell’800 sulla base di un moto popolare spontaneo, le precedenti repubbliche giacobine nacquero grazie alle armi francesi, sia festeggiata da pochi? La Chiesa cattolica ne odia solo il ricordo. Palazzo della Cancelleria dove si insediò l’Assemblea Romana oggi è drappeggiato da un rigoglioso stendardo vaticano, è la sede della Penitenzieria apostolica. Su quelle scale il 15 novembre del 1849 venne ucciso Pellegrino Rossi, che aveva combattuto gli austriaci con Murat nel ’15, un liberale ed un riformatore. La daga, il pugnale non fu mai trovato. Il Supremo tribunale della sacra consulta ristabilito alla fine della repubblica comminò una novantina di condanne a morte, ma nessuna colpì con sicurezza i responsabili dell’omicidio. Si sospettavano il principe di Canino, tacciato di essere il nuovo Marat, Mamiani, più probabilmente Brunetti che pure era già stato fucilato dagli austriaci senza processo alcuno. Non ha molta importanza. Quello che contava è che nessuno voleva le riforme del papa, e meno che mai la mano educata di Rossi a guidarle. Si voleva la rivoluzione e la morte di chiunque vi si interponesse, si voleva Mazzini e questo si ottenne. Un altro buon liberale come il Farini divenne nemico dichiarato della Repubblica. E da Farini che influenzava giusto la corte sabauda che di suo non ne aveva alcun bisogno per odiare i repubblicani, si raggiunse una mente ben più imponente, una celebrità dell’intera epoca, Alexis Tocqueville. Fu l’aristocratico Tocqueville, ancora famelico di vendette familiari da consumarsi il principale avversario della rivoluzione romana il primo a vedere nell’omicidio di Rossi il tratto giacobino. Luigi Bonaparte cugino del principe di Canino, figlio di Luciano Bonaparte, nipote del generale giacobino che proclamatosi imperatore fece arrestare il papa per poi deportarlo, che motivi aveva di detestare la Repubblica Romana? La cosa paradossale è che l’altro nemico più importante della Rivoluzione romana, il comunista Antonio Gramsci, sostiene tesi opposte a quella di Tocqueville. Nei suoi quaderni sul Risorgimento, Gramsci descrive Mazzini come un babbaleo che “non convocò la piazza d’armi”. La versione di Gramsci ovviamente in Italia è la più famosa, tanto che ancora per le celebrazioni, molto modeste, del centocinquantenario, la Rai mandò in onda un singolare sceneggiato dove Mazzini e i consoli erano all’opera a cantare le arie di Verdi, mentre i francesi attaccavano il Gianicolo.
Ad essere sinceri gli incubi visionari di Tocqueville sono più realistici delle analisi seriose di Gramsci. Mazzini ovviamente la piazza d’armi la convocò eccome, Garibaldi sconfisse subito l’esercito borbonico che aggredì la Repubblica ed avrebbe facilmente preso di infilata l’avanguardia di Oudinot che appena sbarcato ad Ostia subì una disfatta. I primi francesi che entrarono a Roma, furono prigionieri. Mazzini fermò il generale, praticamente lo degradò sul campo, perché non voleva acuire il conflitto con la Francia. Mazzini aveva sufficienti relazioni personali con il presidente Bonaparte per rassicurarlo sulla vita del pontefice e la costituzione redatta poi dall’Assemblea sarebbe stata il sigillo delle garanzie personali offerte al papa. A contrario di Gramsci, Mazzini capiva che la Repubblica non avrebbe potuto combattere contro l’Austria, i borboni e persino la Francia, sempre che lo stesso Piemonte non le avesse mosso guerra ed aveva buone possibilità di condurre in porto la sua trattativa. Non aveva idea del livore reazionario del nuovo ministro egli Esteri francese Tocqueville e dell’orgoglio ferito dell’Oudinot. Da parte sua Luigi Bonaparte stroncò la carriera di entrambi i suoi servitori, licenziando il primo e pensionando il secondo dopo l’umiliazione di mandarlo a relazionare alle Camere sull’avventura. Il danno oramai era fatto. La repubblica venne soppressa e nella storia si diffuse l’opinione dei suoi principali avversari. Non ha aiutato il fascismo di Salò che di Mazzini ignorato lo spirito democratico e il sentimento di indipendenza nazionale, si impossessò della sola idea del sacrificio morale. Ieri sera a San Remo un esponente di Fratelli d’Italia ha detto di temere i moralisti. La cosa fa piacere. Moralisti lo furono prima di tutti i repubblichini con la loro sindrome della patria tradita.
La Repubblica romana si trovò schierati tutti insieme da avversari i cattolici, i liberali, i marxisti e dulcis in fundo la manipolazione fascista. Mussolini e Ciano anche sotto le bombe andavano a rendere onore all’ossario del Gianicolo il 9 febbraio, ma giusto perché odiavano la Francia. Solo i vecchi rivoluzionari mazziniani hanno difeso la memoria della Repubblica romana, uno dei più grandi di tutti, Edgar Quinet polemizzò subito violentemente con Tocqueville. “Libera chiesa in libero Stato? A Roma è come dire libero Zar in libera Russia”. Entrate in una libreria e provate a cercare un testo di Quinet, che pure è uno dei più grandi storici francesi. Troverete solo le opere del “liberatore” Tocqueville. In tali condizioni, potrebbe anche sembrare davvero difficile da portare questo peso di celebrare comunque il 9 febbraio. Anche perché con gli anni le idee si confondono, i ricordi si attenuano e tutto sommato si dimentica volentieri. E poi ,perché no? Ci si potrebbe persino convincere delle ragioni di avversari tanto forti, per cui la Repubblica a Roma non fu un evento così rilevante. In fondo si tratta del proprio modo di essere e di interpretare la storia. Il 9 febbraio segna la frattura più grande del Risorgimento. Da allora in poi la vita nazionale dall’epopea dei mille scivolò nella farsa di Teano, con l’annessione al Piemonte dei suoi nuovi possedimenti. Mazzini volava la Costituente, non l’allargamento del regno sabaudo. Leggiamo Tomasi di Lampedusa, ma anche De Roberto. Il trasformismo liberale allora ed il fascismo poi, con la benedizione della Chiesa cattolica, ecco l’Italia unita. Tutto sul cadavere della democrazia repubblicana.