È stato ristampato da qualche settimana dall’Editrice Morcelliana Sul fondamento della conoscenza di Moritz Schlick introdotto e commentato in nota da Emanuele Severino. Schilick è il fondatore (con Carnap e altri) del Circolo di Vienna, a cui aderirono anche Wittgenstein e Popper. Sono i neopositivisti, quelli lasciati indietro dalla rivoluzione copernicana di Kant, quelli che sostenevano posizioni naïf rispetto a forme più elaborate e strutturate di filosofia, come “dobbiamo stare dietro le cose”, come se non si fosse già dimostrato che non può esistere una oggettività, almeno non in senso assoluto e puoi portare avanti tutti i principi di verificazione che vuoi, puoi portare avanti tutte le polemiche sui protocolli, ma avrai sempre a che fare con oggetti che dipendono sempre, in ultima analisi, dai soggetti che li interpretano. E quindi tu fai la tua parte, ma la fai secondo una ‘convenzione’. Non descrivi una realtà ‘oggettiva’, un’esperienza, un fatto. Ma descrivi una realtà che è oggettiva per un soggetto o per più soggetti che la guardano con gli stessi strumenti cognitivi, e quindi avrà sempre precedenza conoscitiva l’analisi di questi strumenti. Non è una barbarie, ci mancherebbe, e non è un errore. Solo che non puoi avanzare pretese ultime. È qualcosa di utile sul terreno pratico. Nella storia filosofia è servito solo a far guerra alla vecchia metafisica, a cui comunque avevano già provveduto Kant ed Hegel. Piace vincere facile, come si diceva una decina di anni fa per il Gratta e vinci. Bonci Bonci bon bon bon.
Noi non respingiamo l’empiria, diceva già Augusto Vera in un ragionamento che vale la pena seguire nel dettaglio, tanto chi si annoia può smettere di leggere. Non respingiamo, dicevamo, né l’empiria e nemmeno quello che gli empirici chiamavano, e chiamano, ‘metodo sperimentale’. Anzi, è vero esattamente il contrario. I filosofi lo vogliono fare. Vogliono fondare “l’esperienza nel suo vero principio”, vale a dire su di un “principio assoluto”, principio proprio perché assoluto, che “appunto perché assoluto, dominando l’esperienza, può solo generarla e intenderla”. «L’esperienza né genera né conosce se stessa, non ha in se stessa il principio dell’essere e del conoscere, perché conoscere sperimentalmente non è conoscere il principio, la ragione dell’esperienza. Conoscere, ad esempio, che l’uomo muore, non è conoscere la ragione intrinseca, l’essenza, come dicesi, della morte. L’esperienza presuppone dunque un principio che la genera e la conosce, principio che, mentre in essa si manifesta ed esiste in quanto vi si manifesta, la supera però e da essa si dintingue […]. Quindi noi ammettiamo l’esperienza nei limiti e nel senso in cui è ammissibile, ed ammettiamo altresì ch’entro tali limiti sia necessaria, ma la rigettiamo come falsa e ingannevole allorché si arroga un valore ed un’efficacia che non ad essa, ma ad una più alta sfera, a un più alto processo della mente appartengono, sconvolgendo in siffatta guisa la natura della cognizione e della verità».
Ora, anche il bidello è necessario a scuola, anche il soldato è necessario in una battaglia e anzi, concede Vera (il bidello invece l’ho scomodato io), senza soldati non ci sono eserciti. «Ma se il soldato si atteggia a generale, e il soldato e l’esercito intero andranno in malora. Perché il soldato non è per sé, ma quella unità che è il generale, che la mente organica, cioè, del generale, rappresenta ed attua, e che imprime in una maniera indeterminata e informe quella forma ed energia speciali che fanno il soldato… Ora il pensiero empirico cade in illusioni simili a quella del gregario che, sentendosi ed essendo difatti necessario, crede di potersi sostituire al generale, sostituire, cioè, il pensiero subalterno al pensiero imperatorio (egemonikon), per dirla con gli Stoici».
Il pensiero cioè comprende il fatto, allora la scienza è la scienza del pensiero, non la scienza dei fatti, perché se osserviamo un fatto lo facciamo come fanno gli animali, comprendere il fatto invece, vuol dire anche conoscere gli strumenti, la forma, che stiamo dando al contenuto nel momento sintetico dell’atto del conoscere. Porre il fatto a principio della scienza vuol dire ridurre la scienza a scienza empirica, cioè a mera descrizione di fatti. «Ma la cognizione sperimentale non è tutta compresa nel fatto e nell’osservazione, ci dirà l’empirico, che anzi il fatto e l’osservazione ne formano soltanto il punto di partenza e, a dir così, il prodromo, mentre l’atto specifico della suddetta cognizione risiede nella induzione, mediante la quale l’intelligenza, innalzandosi al di sopra dei fatti e dell’osservazione, eleva questi al loro principio».
Ma l’induzione è un’altra fallacia dell’empirismo. La più spiccata. La notò già Russell tra i neopositivisti, una storiella poi ripresa pure da Popper sulle pretese validative dell’inferenza induttiva: «Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento in cui era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “Mi danno sempre il cibo alle 9 del mattino”. Questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato».
Anche ammettendo che il processo induttivo sia un processo essenziale, e non lo è, questo non avvantaggia le pretese teoretiche e conoscitive dell’empiria. «L’induzione è comunque una forma limitata e subalterna che non contiene la natura intrinseca né del fatto né di se stessa, e presuppone quindi un’altra ragione che genera e determina il fatto e l’induzione. Sapere per induzione che l’uomo è mortale, che i corpi si dilatano, che il fuoco brucia, e cose simili non è conoscere il perché, la cagione intrinseca, la necessità universale e assoluta di codesti fenomeni».