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La Russia di Putin ha altro di cui preoccuparsi che della morte di Gorbaciov

Riccardo Bruno di Riccardo Bruno
1 Settembre 2022
in Esteri
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Più che della morte di Gorbaciov oramai 92 anni, Putin avrà di che preoccuparsi di quella del vicepresidente della Lukoil, la seconda società petrolifera del paese, precipitato da una finestra di ospedale. C’ è una moria di dirigenti e oligarchi russi negli ultimi mesi che per ritrovare una piaga simile bisogna tornare alle purghe di Stalin.  Per quanto riguarda Gorbaciov, non ci saranno i funerali di Stato. Putin ha espresso un cordoglio imbarazzato. Gorbaciov ha la responsabilità storica di aver consentito la dissoluzione dell’Unione sovietica e di non aver impedito l’espansione della Nato verso est. È proprio dal giudizio di Putin su Gorbaciov, che pure è stato un suo sostenitore per lo meno fino all’invasione della Crimea, si capisce che al leader del Cremlino manca il minimo senso della storia.

Ieri, Sergio Romano ambasciatore a Mosca fino al 1989 constatava come Gorbaciov non avesse nessuna idea di quali riforme si sarebbero dovute intraprendere nel paese. La visione economica dell’ultimo presidente del Pcus era quella di un buon socialista che ignorasse completamente il valore del mercato. Alla base delle privatizzazioni avvenute principalmente fra i favoriti del regime ci fu la mancanza di un qualsiasi piano economico di sviluppo. La “perestroika” fu subita da Gorbaciov, non imposta e principalmente riguardò la libertà di stampa, così come la “glasnost” che ne fu l’effetto immediato. Il motivo non era perché Gorbaciov si sentisse un liberatore, la pensava esattamente come Ligaciov, il “leone leninista” del Pcus, almeno fino al 1986. Cosa accadde allora? La gestione della crisi in Afghanistan che scappava  di mano. In Afghanistan si consumò un disastro militare che colpì al cuore il sistema sovietico che si rese conto di non essere in grado di controllare un paese annesso. Gli americani avevano perso in Vietnam, ma non la guerra, la politica. Le bombe su Hanoi e la Cambogia avevano portato il regime nordvietnamita agli accordi di  Parigi. Senza il Watergate, Saigon sarebbe ancora indipendente. Kabul dovette essere abbandonata perché la potente armata rossa aveva completamente fallito la sua missione con una Russia interamente affiancata all’impegno bellico, senza un solo distinguo, un solo giornale che lo criticasse. Almeno fino all’86, quando oramai i reduci dell’Afghanistan, la Russia ha impegnato ed avvicendato quasi un milione di uomini in nove anni, hanno seminato il panico nell’intera confederazione tale la proporzione del fallimento. La perestroika è una reazione all’esplosione dell’esercito, praticamente la disinnesca, Una volta ammessa l’impotenza dell’esercito il regime non è più in grado di garantire gli interventi che lo salvaguardarono in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Polonia. È destinato a dissolversi. Anche perché dall’altra parte dell’Atlantico,  la sfida degli armamenti, non è nemmeno immaginabile di poterla intraprendere.

Non è un caso che i servizi britannici ogni giorno ci facciano sapere dell’inefficienza bellica in Ucraina dell’esercito russo. È un esercito che non è più all’altezza di vincere una guerra dalla data del ritiro dall’Afghanistan. Putin pensava bastasse mostrare i muscoli per sconfiggere il nemico. Questa è la vera differenza che lo separa da Gorbaciov. Gorby era consapevole dell’autentico peso che la Russia poteva esercitare nel mondo moderno. Vladimir rincorre vanamente un mito di potenza che risale al 1600 e si è spento in Afghanistan alla fine del secolo scorso.

Foto CCO

Tags: GorbaciovPutin
Riccardo Bruno

Riccardo Bruno

Riccardo Bruno si è laureato in Storia della Filosofia presso l'Università di Roma La Sapienza nel 1988. Dal 1987 al 1989 collabora all'Ufficio esteri del PRI diretto dall'onorevole Vittorio Olcese. Dal 1994 è capo ufficio stampa del PRI, dal 1995 giornalista professionista iscritto alla stampa parlamentare. Nel 1999 è capo redattore de La Voce Repubblicana. È stato poi editorialista per il Foglio di Giuliano Ferrara e l'Indipendente di Vittorio Feltri. Dal 2019 è prima vice direttore de La Voce Repubblicana e poi direttore politico

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