Nel 2007, al Lingotto di Torino, ascoltammo per la prima volta il termine “vocazione maggioritaria”. L’aveva usato l’onorevole Veltroni nel corso del suo intervento: il nuovo partito doveva avere “in sé un’ambizione, non autosufficiente ma maggioritaria”. Il Pd aveva appena preparato una carta costitutiva che elevava a padri nobili, Gramsci, un trotskista della prima ora, e Don Milani, un prete. Tutto quello che stava in mezzo a questi due pensieri scompariva. Non che Veltroni si preoccupasse del profilo culturale ed ideologico del nuovo partito. In compenso rassicurava tutti di voler lavorare per rafforzare il governo, e ovviamente di rispettare e stimare i partner della coalizione. Con rispetto e stima quindi il Pd mise quei partner sotto lo schiaffo del voto utile e, corse da solo alle elezioni. Nel 2009 nacque la più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana a favore di una coalizione di centrodestra. Per trovare una vittoria simile bisogna tornare a Kosovo Polje nel 1389 quando l’impero ottomano schiacciò il nazionalismo serbo che ebbe bisogno di cinque secoli per ridestarsi.
Anche per questo il fenomeno Renzi fu salutato a sinistra come un miracolo. Nemmeno cinque anni ed il Pd aveva rialzato la testa. Non fosse che Renzi appena ottenuto questo successo formidabile, mandò a casa i suoi propositi riformatori e liberali, portò il Pd ad aderire all’internazionale socialista, e rinforzò immediatamente la vocazione maggioritaria del partito, tanto da arrivare al referendum costituzionale. Veltroni intervistato dal Corriere della sera, aveva le lagrime agli occhi. Renzi mi ha persino superato, ma le idee erano mie, disse commosso. Vero.
Con simili antefatti, come non apprezzare il tentativo autocritico di Letta a La Spezia in occasione del voto in quella città. Per la prima volta è stata giudicata un errore l’ambizione maggioritaria del Pd, tanto da ribadire quello che aveva scritto a Corrado Saponaro, dopo il congresso del Pri, ovvero l’intenzione di formare una coalizione ampia, articolata, riformatrice, davvero in grado di misurarsi con i problemi e le differenze che esistono nel paese. Una coalizione che non può quindi essere solo composta dal Pd, i Cinque stelle e Sinistra italiana, se capiamo bene cosa Letta vuole dire.
Se il Pd abbandona davvero la sua ambizione maggioritaria, e riconosce che la tradizione democratica non si riassume esclusivamente nell’opera di Gramsci e Don Milani – Gramsci con la democrazia non c’entra niente – questo comporta un contributo culturale pregevole. Se poi il Pd volesse anche dare un contributo politico conseguente, dovrebbe preoccuparsi di ripristinare una legge interamente proporzionale, perché è la legge maggioritaria che suscita malsane ambizioni e porta poi sempre a far montare qualcuno su un predellino, da cui inevitabilmente cade.
Per il resto il Pri è incline a discutere a fondo e senza pregiudizi tutti i problemi. La nostra idea congressuale è che occorra preservare e continuare a portare avanti anche nella prossima legislatura l’agenda del governo Draghi. Questa si sposa naturalmente con l’identità democratica e liberale del nostro partito e con l’unica vocazione che possediamo, quella repubblicana. Deve essere anche chiaro che per un simile obiettivo siamo disposti a collaborare senza riserve e senza preclusioni con chiunque sostenga la medesima agenda.
Agli occhi del nostro congresso l’opera compiuta da Draghi è fondamentale per il destino della nazione ed è ancora più decisivo completarla. Non saremo certo noi a voler escludere, comunque si definiscano, coloro che vogliono perseguirla nella prossima legislatura, anzi. Più ci sono sostenitori del programma Draghi, più crediamo si porti ad un successo l’idea liberal-democratica ed il governo repubblicano.