Del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), continuatore del pensiero di Kant e iniziatore, in Germania, della grande stagione dell’idealismo, segnaliamo l’uscita da poco di un suo testo, fin qui inedito, in edizione italiana (Ascetica come appendice alla morale, a cura di Maurizio Maria Malimpensa, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 122). L’opera è del 1798 e compare originariamente come appendice al suo Sistema di etica, il quale doveva fornire il completamento, sul versante pratico, di quel sistema filosofico, noto come «dottrina della scienza», che egli era andato esponendo fin dal 1794. Si inizia con una precisazione circa il modo in cui deve procedere la morale. Essa deve presentare l’uomo in generale come l’essere in cui si accende quell’«impulso naturale» che lo conduce, progressivamente, verso la legge morale della ragione. Fichte si richiama all’esempio dato dalla dottrina filosofica del diritto, la quale, partendo dall’assumere gli uomini come «meri esseri naturali», vede così quale «uso della libertà» possa andare d’accordo con lo stabilirsi, fra essi, di una reciproca relazione. Ed è proprio qui – aggiunge – che si produce l’«abisso» fra teoria e prassi, perché la prima, in quanto scienza pura, è inadatta a determinare l’uomo all’azione.
Tuttavia, «a parere del vero filosofo, la scienza deve certo essere introdotta nella vita […]. Nasce, quindi, per il filosofo il compito di indicare come le esigenze della ragione possano venir realizzate in un contesto di premesse determinato, empirico, dato», così che la scienza che si assume questo compito, colmando l’«abisso» fra teoria e prassi, venga a mediare fra la scienza pura, da un lato, e la storia e l’esperienza, dall’altro. Il punto è che, però, poiché un tale «abisso» è incolmabile e lo iato fra i due mondi nondimeno permane, l’uomo deve far affidamento al sano esercizio del suo giudizio. La scienza mediatrice, infatti, lo guida soltanto, indicandogli il ponte fra i due diversi mondi. Sta a lui educarsi all’azione, in un modo che si tiene, il più possibile, conforme a regole. Ora, mentre si chiama politica «ciò che armonizza l’applicazione della dottrina pura del diritto ai determinati statuti esistenti», si chiama, invece, ascetica «ciò che armonizza l’applicazione della morale pura al carattere empirico, fin tanto che ciò è possibile». Per quanto è possibile, appunto, perché vi è una grande differenza tra ciò che persegue la politica e ciò che persegue l’ascetica. La prima mostra la via lungo la quale uno Stato determinato può essere ricondotto all’«unico statuto giuridico conforme a ragione», la seconda la via lungo la quale l’uomo può introdurre, se stesso o gli altri, gradualmente, all’intenzione morale.
Ed ecco dove si dà un punto di differenza fra le due. La politica non ha a che fare con il «volere propriamente libero dell’uomo», ma con il volere nella misura in cui esso si inscrive all’interno della catena di quel «meccanismo naturale» costituito dalla coercizione giuridica, che interviene quando l’uomo agisce in senso contrario alla legge. «L’arte politica ha di mira soltanto la legalità, in nessun modo la moralità». Tutt’altro è, invece, lo scopo della morale, la quale, avendo per oggetto la libertà in quanto tale, ha competenza su tutti quei casi in cui il bene deve essere fatto per se stesso e per nessun’altra ragione. Una decisione, questa – aggiunge Fichte –, che è un qualcosa di «assolutamente primo», non riconducibile a qualcos’altro, come un effetto alla sua causa. «Dev’essere prodotta dall’animo dell’uomo stesso, e non è producibile in lui dall’esterno, al modo in cui certamente lo è […] la decisione di fare o non fare in generale qualcosa». Ma com’è che noi ci introduciamo all’intenzione morale? Non per via di una continuità rispetto alle intenzioni naturali, ma attraverso un «salto» che ci proietta in una sfera totalmente contrapposta rispetto al dominio di esse. Ancora un punto di differenza fra politica e morale si mostra poi nel fatto che, laddove, nel caso della prima, quando ci si trovi in uno Stato in cui esiste una costituzione civile non buona, bisogna darsi da fare affinché essa sia migliore, nel caso della seconda, invece, non si dà alcun procedere dal bene verso il meglio: «o si deve essere completamente morali oppure non lo si è affatto».
Passando a una determinazione più puntuale del concetto di ascetica, Fichte prospetta due casi: quello in cui in un’azione immorale ci dimentichiamo del tutto del dovere e quell’altro in cui, nell’agire, abbiamo sì davanti a noi il dovere, ma solo di sfuggita e debolmente. Circa il primo caso c’è poco da fare, è chiaramente il movente empirico, l’impulso naturale, ciò che ci determina all’azione. Nel secondo caso abbiamo a che fare, invece, con un «pensare fiacco, che non diventa affatto volere», così che, anche in questo caso, è il «movente empirico» ciò che, imponendosi, si dà come l’unico impulso alla determinazione. Il filosofo tedesco pensa che porre rimedio a questo secondo caso ci fornisca, al contempo, la chiave per porre rimedio anche al primo. Ciò che deve fare l’uomo è chiedersi che cosa ha impiantato in lui il concetto di dovere. La risposta non può essere che una: la libertà. Ad essa spetta, infatti, di sollevare a piena chiarezza proprio il concetto di dovere, astenendo l’uomo dall’agire, prima che quella «convinzione» che attraverso di esso si estrinseca non si faccia a lui presente. Ritornando ai due casi di prima, in entrambi ciò che accade è che ci si dimentica di fare il proprio dovere: nel primo, perché non si solleva in generale il pensiero al piano del dovere, nel secondo, perché non si eleva a compiuta chiarezza il pensiero di un dovere particolare. «Il compito dell’ascetica, determinato maggiormente, sarebbe perciò questo: trovare un mezzo per rammentarsi incessantemente del proprio dovere».
Chiude il testo una postfazione del curatore, il quale scrive che l’idea di un’ascetica corrisponde, in Fichte, alla «necessità di risolvere, nell’ambito della vita, un problema che è quello filosofico par excellence, il problema della mediazione». Nel senso che, se, nella riflessione del filosofo tedesco, all’etica spetta di «mostrare a quali condizioni sia pensabile la libertà», è propriamente all’ascetica che spetta, invece, di mostrare, nell’uomo, in quanto «essere razionale finito», come il suo «impulso puro verso l’autonomia» e l’«autodeterminazione» riesca a tradursi in realtà. Rispetto al dominio della «dottrina della scienza», il domino coperto dall’ascetica coincide così quella che si può definire come una «dottrina della saggezza». E ciò proprio perché quest’ultima è da ritenersi come un’«arte» più che come una scienza.
Foto da Allegoria di Sapienza e forza di Paolo Veronese | CC0