Autorità indiscussa negli studi su Controriforma, Riforma e Inquisizione, Massimo Firpo è Professore emerito all’Università di Torino. Ha svolto attività di insegnamento nelle Università di Oxford e Ithaca (N.Y) e di ricerca presso la Newberry Library di Chicago. Dal 1990 al 2006 è stato componente del comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi. Oggi è una delle più autorevoli firme culturali de Il Sole 24 ORE.
Firpo, spesso si è occupato, nel corso della sua attività di storico, del tema della “Riforma” in Italia. Cos’è, non solo in tema religioso, che rende tuttora questo paese poco “riformato” e poco “riformatore”?
«In Italia non abbiamo avuto la Riforma protestante, ma è stata comunque decisiva, perchè ha prodotto la Controriforma. La proibizione fatta ai laici di leggere la Bibbia in volgare ha fatto di questo paese uno dei più ignoranti che esistano. E le eresie di ogni tipo nascono dalla conoscenza della Bibbia. All’ignoranza religiosa va sommato il progressivo allargamento del campo Inquisitoriale, dalla religione alla filosofia fino alla scienza. Galileo è stato condannato non per aver proferito errore, ma per aver proferito eresia. Si è creata così una Chiesa capillarmente sorvegliante e repressiva. Il Ghetto ebraico, per fare poi un esempio illustre, venne istituito da Paolo IV in piena Controriforma».
A Chicago lei ha potuto mettere mano sulle opere di John Locke, uno dei massimi teorici dello Stato laico. Quanto è importante, nelle società moderne, la laicità?
«Lo Stato laico è fondamentale. È una teoria molto semplice: tutto ciò che è consentito dalla legge non può essere proibito perché ha valore religioso per qualcuno. Bisogna, per questo, evitare che la legge abbia la pur minima connotazione religiosa. In tutti i modi la Chiesa nei secoli ha tentato di politicizzare il proprio potere sacro e i poteri pubblici hanno tentato di sacralizzare il loro potere laico. È un elemento conflittuale che alla fine ha resistito».
Andando più oltre, è o no la Scuola pubblica, laica e non laicista, educativa e non solo istruttiva, come sosteneva Mazzini, il fondamento di una democrazia, di una Repubblica?
«Penso che la Scuola sia fondativa di una democrazia, ma dovrebbe essere allo stesso tempo anche fondativa di una civiltà comune. È una follia che nelle scuole italiane si studi solo la cultura italiana. È una delle occasioni perse nel processo di costituzione europea. Eppure non ci sarebbe Shakespeare senza Rinascimento italiano.
È stata anche cancellata la Storia in nome della letteratura, e la Storia da noi la fanno non gli storici ma i pedagogisti e gli psicologi.
È poi una scuola di tipo assistenziale. Questo fa sì che la “buona scuola” sia la scuola dei ricchi, delle private. La cancellazione dell’elemento meritocratico è un regalo fatto alle classi elevate. La meritocrazia è necessaria nel suo compito di selezionare la classe dirigente: altrimenti, si seleziona da sola».
Spesso si sente dire che ciò che contraddistingue l’Occidente è il sentimento di libertà. In un frangente geopolitico così complicato, è ancora attuale questo criterio?
«Io parlerei piuttosto del senso di appartenenza alla democrazia, che sta entrando in una crisi profondissima. La gente non va a votare: l’uso della libertà quindi non avviene. Lo abbiamo visto recentemente. Stanno rinascendo, invece, le logiche prevaricatrici degli imperi, verso cui si continua a provare un certo fascino. La libertà dell’Occidente avrebbe, poi, dovuto provvedere anche all’eccessiva polarizzazione tra ricchi e poveri. Cosa che non ha fatto. Quindi sì, l’universo della libertà che noi conosciamo è particolarmente in crisi».
In chiusura mi permetta una domanda sul futuro. Giovanni Spadolini ebbe a dire che è Repubblicano chiunque “crede in un’idea alta e severa dell’Italia laica”. Secondo uno studioso del suo calibro, c’è futuro per il repubblicanesimo?
«Tutto ha un futuro, ma non certo a breve. È la mia cultura, sia chiaro, ma rispetto ai tempi in cui queste idee sono nate, oggi stiamo assistendo ad una rivoluzione ancora più radicale di quella industriale: la rivoluzione digitale. È un mutamento profondissimo di come gli uomini sentono la società, della loro identità nel mondo. Oggi non siamo ancora in grado di valutarne le conseguenze, ma certo non vanno verso destini collettivi responsabili e consapevoli».