La riforma della giustizia illustrata la scorsa settimana dal ministro Nordio in Parlamento è ampiamente condivisibile, visto che è improntata a dare attuazione ad alcuni dei principi fondamentali del diritto penale liberale. Sono molti i punti su cui la riforma si propone di intervenire: ma prima di passarli brevemente in rassegna, bisogna anche manifestare sostegno al metodo con cui si sta portando avanti la riforma. È infatti apprezzabile il pieno coinvolgimento del Parlamento, diversamente da quanto accaduto nel passato, anche più recente, in cui Senato e Camera avevano un ruolo molto più ancillare rispetto al Governo. Chi segue infatti passo dopo passo le molteplici proposte di cambiamento che si stanno discutendo in Parlamento sa bene quanto sia vivace il dibattito, nonché quanto forti e autorevoli siano le spinte che provengono dal lavoro di singoli parlamentari o dal confronto nelle commissioni, anche grazie alle tante indagini conoscitive che si susseguono su argomenti di grande rilievo. Non va in proposito dimenticato che la riforma delle intercettazioni illustrata dal Ministro Nordio segue un’approfondita indagine conoscitiva parlamentare che ha evidenziato le tante patologie del sistema attuale, e gli abusi che ne derivano. Inoltre, è stata recentemente deliberata dalla Commissione giustizia del Senato un’indagine conoscitiva sulle implicazioni dell’intelligenza artificiale per la giustizia penale: i risultati di questa indagine, speriamo, consentiranno al legislatore di intervenire tempestivamente per evitare gravi violazioni dello Stato di diritto derivanti da un ricorso “fideistico” all’intelligenza artificiale nelle materie della polizia predittiva e della giustizia predittiva. Sul tema tornerò in chiusura.
Ma torniamo alle riforme all’ordine del giorno, per cercare di spiegare le ragioni per le quali vanno sostenute. Iniziamo dalla prescrizione: all’inizio del 2019, l’allora ministro della Giustizia Bonafede, con il sostegno della maggioranza parlamentare dell’epoca, cancellò la prescrizione, introducendo così il principio -manifestamente contrastante con i principi del diritto penale liberale – per cui l’imputato può essere sottoposto per un tempo infinito all’azione penale dello Stato. “Fine processo mai”: schiacciare i diritti individuali era la ricetta per sopperire alla disorganizzazione e all’inadeguatezza della pubblica amministrazione. Il disinteresse per le libertà fondamentali dell’individuo era il mantra di una cultura giustizialista che è auspicabile ci lasceremo per sempre alle spalle. Nella seconda parte della scorsa legislatura, con il governo Draghi, la ministra della Giustizia Cartabia cercò una mediazione politica per arginare gli effetti devastanti per lo Stato di diritto della cancellazione della prescrizione. La soluzione fu l’introduzione dell’improcedibilità dell’azione penale ove fossero stati superati i tempi di ragionevole durata del processo. Per quanto apprezzabile sotto il profilo politico, questa soluzione però lasciava ampi spazi di perplessità giuridica visto che la prescrizione è stata trasformata in un istituto di natura processuale, quando è sempre stata – nella nostra storia e nella cultura liberale – una garanzia del diritto penale sostanziale, come tale soggetta anche all’applicazione del principio del favor rei. Ora la riforma in discussione si propone di tornare alla disciplina precedente a tutte le modifiche generate nella scorsa legislatura: per le ragioni che ho scritto va attentamente seguita e sostenuta in modo che il dibattito parlamentare consenta di giungere ad una modifica realmente aderente ai principi dello Stato di diritto.
Sono ampiamente condivisibili le misure volte a modificare l’attuale disciplina processuale in materia di intercettazioni di conversazioni e sequestro dei dati contenuti nei dispositivi informatici. Oggi la prassi investigativa abusa in modo bulimico delle intercettazioni; un uso sproporzionato, rispetto all’equilibrio che l’ordinamento deve sforzarsi sempre di raggiungere tra sicurezza e libertà, secondo il coraggioso insegnamento dell’allora presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barack, anche nei momenti più difficili della storia. Il ricorso eccessivo alle intercettazioni, unito allo strapotere delle Procure della Repubblica anche nel rapporto privilegiato con il mondo della comunicazione, danneggia ampiamente e ingiustificatamente la presunzione di innocenza, il diritto di difesa e il diritto alla reputazione individuale. Sotto quest’ultimo aspetto trovo giusta anche la proposta di modifica volta ad evitare che vengano trascritte le intercettazioni di soggetti terzi rispetto alle indagini. Una conversazione intercettata crea infatti una cultura del sospetto che rischia di minare in radice la terzietà del giudice, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, dove non di rado si verifica un conseguente eccessivo ricorso alle misure cautelari. Un’altra ricaduta negativa dell’abuso investigativo delle intercettazioni è quella di annientare le altre prove, visto che non di rado i giudici, nella motivazione delle sentenze, si sottraggono al doveroso sforzo critico di analisi degli altri elementi probatori, appoggiandosi solo sull’esistenza di conversazioni intercettate, che spesso vengono analizzate in modo decontestualizzato, approssimativo e giustizialista. E’ altrettanto condivisibile la proposta che prevede che sia il giudice ad autorizzare il sequestro dei dati informatici contenuti in smartphone, tablet e altri dispostivi informatici o telematici analoghi. Oggi questo invasivo mezzo di ricerca della prova può essere disposto dal pubblico ministero in assenza dell’autorizzazione del giudice: tutto ciò crea una sperequazione rispetto alla disciplina delle intercettazioni telefoniche, che sono invece autorizzate dal giudice. Una distinzione del tutto ingiustificata, alla luce del cambio repentino del nostro modo di comunicare, nel solco delle più recenti decisioni della Corte costituzionale volte a equiparare alla corrispondenza le forme di comunicazioni moderne di messaggistica istantanea (Whatsapp). Come ha giustamente detto il ministro Nordio in Parlamento, la maggior parte dei nostri dati si trovano archiviati all’interno dei dispositivi informatici che utilizziamo. Trovo altrettanto giusto circoscrivere la misura delle perquisizioni, sequestri e ispezioni informatiche solo ai reati più gravi, secondo i parametri previsti per le intercettazioni telefoniche. Altrettanto importante la proposta di riforma, questa volta proveniente in tutto e per tutto dal Parlamento (l’autore è il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin), di vietare l’ascolto delle intercettazioni delle conversazioni tra avvocati e propri assistiti. Altrettanto condivisibile è la proposta di rafforzare il ruolo del Parlamento nell’ nell’individuazione delle linee programmatiche dell’esercizio dell’azione penale da parte delle Procure.
Anche la riforma dei reati contro la pubblica amministrazione muove da esigenze corrette e legittime: evitare che un distorto esercizio dell’azione penale penalizzi i pubblici amministratori consolidando quella “paura della firma” giustamente stigmatizzata dalla Corte costituzionale nel 2022. Il reato di traffico di influenze, così come oggi scritto, non garantisce il rispetto dei principi fondamentali del diritto penale: tassatività e offensività. Anche il delitto d’abuso d’ufficio, nonostante una modifica del 2020, rischia di creare più effetti negativi sul buon funzionamento della pubblica amministrazione rispetto a quelli positivi. Va perciò ampiamente rivisto escludendo la rilevanza penale di tutte quelle condotte che non possono chiaramente essere inquadrate in fatti di corruzione, concussione, conflitti di interessi, prevaricazioni o gravi abusi di potere. Come ha ben spiegato al Dubbio di sabato l’ex guardasigilli e presidente della Corte costituzionale, Giovanni Flick, l’abuso d’ufficio non può essere utilizzato come “spia” per scoprire altri reati: bisogna invece “tornare alla Costituzione. Che indica in primo luogo nella responsabilità contabile e nel procedimento disciplinare le giuste forme di controllo dell’attività amministrativa”.
Ma la battaglia più importante che il ministro Nordio vuole combattere è quella per la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Una battaglia che il partito repubblicano ha sposato sin dal 2007 quando Francesco Nucara sottoscrisse il manifesto per la separazione delle carriere. Questa riforma è essenziale per rafforzare il ruolo terzo e indipendente del giudice, quale garante del corretto esercizio dell’azione penale e della tutela dei diritti dei cittadini, come prevede l’articolo 111 della Costituzione.
C’è poi ancora tanto altro da fare: va riformato l’ordinamento giudiziario riducendo ancora di più, rispetto a quello che si sta facendo oggi, il numero dei magistrati nei ministeri. In questa direzione, è apprezzabile la decisione di Nordio di favorire la partecipazione degli avvocati al ministero della Giustizia, grazie a un protocollo siglato con il Consiglio Nazionale Forense. Ma soprattutto c’è la più importante delle battaglie da affrontare e da vincere. È la sfida della modernità, che già incombe alle porte: parlo del ruolo che l’intelligenza artificiale generativadeve avere all’interno della giustizia. La partitasarà vinta solo se si identificherannotempestivamente le potenzialità, ma anche i rischi, dello strumento, non lasciando che sia il “formante giudiziario”, come è accaduto con il trojan, a dire quello che si può fare e quello che non si deve fare. Questa è una prerogativa del legislatore, all’interno di un ordinamento liberale fondato sul principio di separazione tra poteri dello Stato: per poterlo fare ci vuole coraggio, grande conoscenza degli strumenti e delle patologie del sistema. Ma ci vogliono soprattutto principi politici e culturali che mettano al centro dell’ordinamento l’individuo, i suoi diritti, i suoi doveri e le sue libertà.