Più di 10.000 miliardi! Questa la ricchezza netta delle famiglie italiane alla fine del 2022 (fonte Banca d’Italia). Gli italiani hanno in tasca 10.421 miliardi (cioè 177.000 euro pro capite), prendendo in considerazione la ricchezza non finanziaria (ove rientrano gli immobili) e il valore delle attività finanziarie al netto delle passività.
Considerando che a oggi il debito pubblico italiano ammonta a 2.895 miliardi, gli italiani sono in grado di comprare 3,59 volte il loro stesso Stato.
Cosa fare con questo risparmio? Troppi politici in Italia si fregano le mani: una tassa di qua, una accisa di là, guardatemi tutti ho risolto il problema del debito pubblico!
In realtà, il debito pubblico non si risolve a colpi di tasse, che se sbilanciate sono in realtà un gravame sull’economia reale, ma con le riforme e con un piano strutturale di incentivi all’investimento e di spesa pubblica.
La ricchezza degli italiani, in particolare quella finanziaria che ammonta a 5.237 miliardi, può certamente diventare un importante volano economico e di sviluppo e quindi va considerata come una leva da attivare, possibilmente rapidamente.
Come trasferire quella ricchezza all’economia reale?
Gli economisti, governativi e non, si sbracciano, si agitano: grafici, studi, analisi, ipotesi di riforma, facciamo nuovi titoli di debito però diversi dagli altri, se ne occupi la Cassa Depositi e Prestiti, detassiamo il venture capital ecc. ecc.
Nessuno sembra partire dal dato fondamentale e basilare di tutta l’impalcatura, il punto focale su cui si deve reggere qualsiasi iniziativa successiva.
Abbiamo detto che questo grande ammontare di ricchezza è in mano, anzi in tasca, alle famiglie italiane: dobbiamo conoscere e capire gli italiani.
La psicologia dell’investitore è la chiave con cui poter attivare, positivamente, quella ricchezza; i grafici, le analisi, gli strumenti innovativi sono qualcosa che deve essere adattata a quella psicologia, a quel modo di vedere la realtà. Insomma, non dobbiamo mettere il carro davanti ai buoi, come insegnavano giustamente i nostri nonni.
Cosa vuole un investitore dai suoi investimenti?
Il rispetto del proprio profilo di rischio/rendimento, analisi semplice ma efficace che si studia al primo anno di economia, non è necessario frequentare la London School of Economics.
L’investitore ovviamente vorrebbe avere un rischio molto basso o nullo a fronte di un rendimento alto, ma sa bene che ciò non è possibile ed è quindi disposto ad accettare un certo grado di rischio a fronte di un rendimento che considera adeguato.
Tra il rendimento e il rischio, tendenzialmente, l’investitore preferirà un rischio minore pur accettando un rendimento minore; insomma è il rischio a guidare le scelte di investimento. Ecco spiegata la psicologia del Btp. Il titolo di stato italiano ha avuto spesso un rendimento reale, cioè la differenza tra il tasso di remunerazione e il tasso di inflazione, basso o addirittura negativo ma l’investitore privato italiano lo acquista perché è garantito dallo Stato, quindi con un rischio checché se ne dica molto basso e al contempo per una questione di home bias, cioè la tendenza a preferire titoli emessi in Italia, anche se eventualmente non pubblici. Se a ciò aggiungiamo che i titoli di Stato italiani (vale anche per gli altri titoli UE ed equiparati) scontano un’aliquota d’imposta del 12,50% contro il 26% di titoli azionari o obbligazionari corporate allora il gioco è fatto. Rende poco ma rischia poco e paga poche tasse: lo compro.
Per collegare i risparmiatori e l’economia reale qualcosa in realtà esiste già, specificatamente i PIR e gli Eltif che offrono alcuni benefici fiscali, sebbene gli Eltif siano prodotti illiquidi quindi rigidi rispetto a quelle che possono essere le esigenze di un risparmiatore.
Questi strumenti però non hanno garanzie sul capitale e pertanto nel tempo è possibile ritrovarsi con un controvalore inferiore rispetto a quanto si era investito.
Torniamo quindi alla domanda che ci sta guidando: cosa vuole l’investitore?
L’avversione al rischio è una caratteristica comune tra i risparmiatori, soprattutto in momenti di turbolenze geopolitiche come questi.
Un prodotto seriamente innovativo, capace di attrarre una grande massa di risparmiatori e di capitali, dovrebbe sicuramente essere a capitale garantito, d’altro canto prevedere un rendimento variabile con un minimo anch’esso garantito.
Questo minimo potrebbe essere anche molto basso, ad esempio 1% annuo fisso lordo, a fronte di una durata minima di 5 anni in modo da assicurare una certa stabilità, per non farne il classico investimento “mordi e fuggi”.
Rimane poi capire come far accedere e per quali progetti le aziende a questa massa di risparmi. Chi e secondo quali criteri valuterà i progetti? Il criterio deve essere necessariamente ed esclusivamente economico, in quanto è scorretto proporre investimenti che non rispondano a tale criterio, gli obiettivi sociali li deve portare avanti lo Stato e non la finanza e infine eventuali progetti in perdita sarebbero coperti dalla garanzia statale, perché nella nostra idea i prodotti hanno il capitale garantito a scadenza.
E lo Stato, cioè tutti noi, non possiamo permetterci di mandare in fumo i nostri risparmi.