La principale preoccupazione era che le elezioni statunitensi fossero per la prima volta una riedizione di una campagna elettorale precedente, con gli stessi candidati di quattro anni fa. Una sorta di rivincita, o, altrimenti, la semplice conferma di una scelta già fatta. Qualcosa del genere, indipendentemente dal risultato, considerata l’età dei contendenti, avrebbe dato l’idea di un’America esausta, incapace di produrre una nuova classe dirigente, intenta a rivangare il suo passato, piuttosto che di andare avanti. Per alcuni mesi si è assistito a questo scenario drammatico, dove un ex presidente nato nel 1946, accusa il suo rivale di essere rimbambito e sente di poter risolvere la contesa con una sfida sul campo di golf.
Pur con una forma discutibile e poco rispettosa per chi comunque si era imposto nettamente alle primarie e senza nemmeno preoccuparsi del contraccolpo sulla credibilità del governo, il partito democratico ha scelto di modificare lo scenario. Per capire chi sia in vantaggio nel gradimento degli americani adesso sono inutili i sondaggi, basta vedere la convention democratica di Chicago. Sul palco si è presentato Bill Clinton, protagonista di un’era politica consumata nel secolo scorso, per vantarsi di essere due mesi più giovane del candidato repubblicano. Il partito democratico ha smontato il principale capo d’accusa degli avversari, la senilità del presidente in carica. Il più vecchio ora è Trump ed è stato lui a portare il tema dell’età nella campagna elettorale. Cambiato Biden, il partito repubblicano, per riprendere la corsa, dovrebbe sostituire Trump alla prima occasione.
Sul piano politico Joe Biden non meritava di essere silurato nel modo in cui lo è stato, soprattutto adducendo a pretesto una performance televisiva infelice. Dai tempi di Kennedy la democrazia americana gioca sul fattore dell’immagine e adesso è quella di Trump ad essere appannata, per lo meno fino al prossimo faccia a faccia, dove magari sarà capace di stracciare anche la Harris. George Washington avesse dovuto sostenere un qualsiasi confronto pubblico, avrebbe rinunciato alla presidenza immediatamente.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, l’interesse del vecchio Continente sarebbe nella continuità politica della Casa Bianca. Si tenga però presente che Trump ha un culto per l’Inghilterra e l’Inghilterra di oggi vorrebbe archiviare la Brexit. Per ora si lamenta la scarsa attenzione alla politica estera nella campagna elettore americana e si comprende perché. Harris dovrebbe ringraziare Trump per avere interrotto gli accordi con il nucleare iraniano pattuiti da Obama. Mentre anche Trump chiede al suo amico Netanyahu di trovare una soluzione pacifica per Gaza. Quanto all’impegno americano in Ucraina, questo è divenuto tale che è più facile per l’America mandare le truppe, piuttosto che sospendere gli aiuti. Sul fronte interno piuttosto la politica di Trump mette un carico da novanta, non solo rispetto alle tradizionali ricette dei democratici, ma anche degli stessi repubblicani. Attenzione però al fronte migratorio dove la Harris è stata costretta a sbandare. Poi avvengono cose impensabili. Un erede dei Kennedy schierato con il Gop, voltate le spalle al suo partito di provenienza familiare, lascia tutti perplessi.
Fortuna vuole che qui non siamo elettori statunitensi e possiamo guardare con un certo distacco all’esito del voto, preoccupandoci principalmente di andare d’accordo con le scelte del popolo americano. Non sono sempre condivisibili, al contrario. Se uno vuole un sistema perfetto, sceglie la teocrazia, la democrazia si arrangia come può. Si chiede un multipolarismo con fenomeni emergenti come la Cina o l’India, la Russia oramai è un fenomeno decaduto al rango di chi si trova costretto a combattere contro il suo stesso popolo in quella che era una sua stessa regione. Conviene ancora tenersi stretta l’America, quali che siano le sue contraddizioni. Una volta annesso il Texas, quello è sempre rimasto americano, mica si voleva indipendente.
George Washington Society