Confessiamo che il ricordo di Giovanni Spadolini e di quel 4 agosto del 1994, con gli anni è sempre più diventato struggente. Per quanto lo avessimo visitato in ospedale solo pochi giorni prima, quando a Piazza dei Caprettari giunse la notizia della sua morte restammo increduli nell’afa plumbea di quella giornata. Bisognava buttare giù il giornale, la chiusura era già stata fissata e scrivere di corsa un editoriale e davvero le parole ci mancavano. Ricordiamo solo il titolo del giornale listato a lutto, “Spadolini è scomparso”, titolo che poi ci sarebbe stato rimproverato aspramente, forse è stato rapito? ci si disse con dileggio, ma che davvero esemplificava uno stato d’animo per il quale, sì, era meglio pensarlo rapito, come Moro ancora a via Fani, magari che già morto a via Caetani. A noi della piccola redazione della Voce, sembrava impossibile immaginare l’Italia priva di Spadolini e quell’ambiguità del titolo rifletteva uno stato d’animo, che lui stesso maniacalmente attento alla stesura del giornale quando ne fu direttore, avrebbe subito corretto.
All’epoca si scherzava sulla morte di Spadolini dicendone che solo lui avrebbe saputo sfruttare elettoralmente per le sorti del partito, tanto che appunto non potendo gestirla in prima persona, avrebbe vissuto molto a lungo. E invece ecco che dovevamo affrontare questa notizia il cui peso ci schiacciava. Moriva il primo presidente del Consiglio laico della storia repubblicana il primo del nostro partito. Non ne abbiamo più visto un altro con la nostra tessera in tasca. È plausibile come pure si disse allora, che la mancata elezione al Colle ne abbia precipitato le condizioni di salute, in quanto nell’uomo Spadolini, il pubblico ed il privato erano diventati una cosa soltanto e questo era eccezionale, una trasparenza della personalità che lo Stato dovrebbe pretendere sempre dai suoi servitori. Facemmo un viaggio con Spadolini in treno Roma Milano, dove Spadolini scambiati i convenevoli si sprofondò in poltrona per correggere le bozze di un suo libro estratte da un borsone. Distolse lo sguardo solo quando arrivammo a stazione. Siamo già a Firenze disse con un tono di voce dolce e un suo collaboratore era salito aveva preso la borsa, ne aveva portata un’altra, Spadolini estrasse un altro volume di bozze fece un sorriso infantile e si rimise al lavoro sino a Milano. Questo suo lato da sgobbone era un tratto fondamentale della sua personalità, attento ai dettagli, alle virgole, alla punteggiatura, alla sintassi, attento alle norme legislative e costituzionali, ancora più attento ai codici e al senso della vita politica repubblicana. Egli se ne trovava interamente a suo agio e probabilmente non avrebbe mai compreso come se ne sarebbe potuti uscire, quali lestofanti si sarebbero potuti aggirare nuovamente nel paese.
Nominato senatore a vita, si era subito ricamato un ruolo istituzionale che lo distanziava dall’attività politica, questo era il significato della sua ultima carica. Eppure, aveva una visione della politica formidabile. Quando il partito uscì dal governo Andreotti e ci si pose il problema di trovare un nuovo equilibrio della vita italiana, egli era diventato preoccupatissimo. Come pensate di sostituire il ruolo centrale della democrazia cristiana? Questa domanda al momento sembrava quasi incomprensibile, ogni vuoto in politica si colma, pensavamo nella nostra dabbenaggine. Spadolini aveva una testa superiore e questo è quello di cui più abbiamo sentito la mancanza.
Foto Fondazione Spadolini