L’unico autentico soggetto privilegiato nel pensiero di Jean Jacque Rousseau è lo Stato di Natura, qualcosa perso per sempre nel nostro passato. I selvaggi delle foreste, Rousseau non li ha mai incontrati, non vi riuscirà nemmeno Tocqueville nel suo viaggio in nord America, che pure li cercava, figurarsi chi passeggiava nei dintorni di Chambery. Si limita a fantasticarli. Quanto a noi civilizzati non potremo mai recuperare l’originaria purezza dell’uomo primitivo, il che ci priva di un qualche futuro luminoso. Il massimo a cui possiamo sperare è un banale “contratto”, come quello fra Faust e Mefistofele, non per ottenere la vita eterna, ma semplicemente, per liberarci dall’ assolutismo. È Rousseau a porre l’esigenza di abbattere la tirannia ma non è detto che ci riesca.
Prendiamo un grande nemico di Rousseau, Nietzsche, che scrive in Aurora, il suo “Contro Rousseau”. Se la società corrompe la buona morale, è inevitabile che la buona morale corrompa la società, si tratta comunque di un fenomeno di decadenza. Persino Nietzsche, al dunque, la pensa come Rousseau. Non era Rousseau anticristiano almeno quanto Nietzsche? La “volontà di potenza” di Nietzsche non è una estrapolazione della “volontà generale” di Rousseau? E la “volontà” di Schopenhauer, maestro di Nietzsche, non deve tutto a quella di Rousseau?
Il pensiero occidentale dell’intera età contemporanea, Kant, Schelling, Hegel, dipende da Rousseau ancora di più che da Descartes e Spinoza. Rousseau mette in scena l’arte mistica della sopravvivenza nel mondo ignoto della civilizzazione, un’arte imperfetta e suscettibile di catastrofici errori. Il pensiero di Rousseau non è scientifico e non è deterministico. Nessuno vi obbliga a firmare “il contratto”, “il dovere dell’uomo” risponde solo alla sua coscienza. E per questa serve un buon educatore. Un bel problema insomma.
“Intendo cercare se può esistere nell’ordine civile qualche regola di amministrazione legittima e sicura”. Sin dalle prime parole de Il Contratto Sociale Rousseau si presenta a noi come un viandante nella notte più cupa. L’illuminismo? È già spento. Si consuma invece il dramma di una società in evoluzione, da cui Rousseau, tutto sommato, preferisce, ipocondriaco com’era, tenersi lontano. È un torto? Forse, ma questo non gli impedisce di descrivere il cittadino. “Non ti ho chiesto se i miei figli sono morti, ma se la Patria, ha vinto”.
Rousseau annuncia la società democratica e c’è chi ritiene persino che inventi quella moderna, ma non ne prova alcuna confidenza. Pone la libertà sopra ogni altro principio, eppure teme che mai si possa realizzare. Il paradosso della “non rappresentanza del governo”, per cui, solo il popolo può guidare il popolo, il governo è il suo domestico, lo dimostra pienamente. Una porta troppo stretta da varcare persino per la Rivoluzione francese che di Rousseau fece un oracolo. Non avere fiducia in nessuno se non nel popolo stesso, è il paradigma della disgrazia del giacobinismo, non necessariamente l’espressione del totalitarismo.
Incredibile e devastante errore assimilare il giacobinismo al bolscevismo, leggere Rousseau come si legge Marx. Marx è l’antitesi di Rousseau. La promessa di un surrogato democratico, il potere nelle mani del proletariato, un fideismo. Rousseau non aveva fiducia nemmeno in sé stesso.
È una pura illazione credere che Rousseau sfiduci allora il popolo inglese, “libero solo al momento del voto, e non un attimo dopo”. Una critica all’aristocrazia britannica, al sistema monarchico restaurato. Rousseau era invece davvero convinto che un popolo una volta persa la sua libertà non l’avrebbe mai più potuta recuperare. Non un pensiero politico, solo una profezia. Così si spiega l’amicizia con Diderot. Nel suo intimo, Rousseau era e rimase un fatalista.
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