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Dal Maximum al minimum, l’opposizione torna al Settecento

Riccardo Bruno di Riccardo Bruno
1 Luglio 2023
in L'editoriale
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L’economia è scienza complessa che pure dispone di elementi abbastanza rudimentali a disposizione anche di chi ha fatto scarsi e nulli studi. Mettiamo che un’azienda possa permettersi sulla base del profitto di pagare i suoi dipendenti un salario di 15 euro. Mai il governo fissasse il salario minimo a 9 euro, ecco che la proprietà dell’azienda riducendo il salario anche solo ad 11 euro, migliorerebbe i dividendi dei soci e farebbe un figurone con l’opinione pubblica. Se invece dieci aziende avessero ricavi così stiracchiati da potersi permettere salari a sette euro, dovendo elevarli a nove, come magari chiede il governo, dovrebbero licenziare mano d’opera, senza garantirsi di rimanere competitive sul mercato e rischiando comunque il fallimento a cui andrebbero incontro quasi sicuramente alzando di due euro il salario. Poi c’è anche il caso di un’azienda che un anno ha bisogno di far stringere la cinghia ai suoi dipendenti che l’anno successivo potrebbero tornare a guadagnare meglio. Questo tipo di considerazioni sono ben presenti al sindacato francese che l’autunno scorso portò i lavoratori in piazza per alzare i salari non certo per fissare un minimo. Il sindacato francese ha un qualche residuo di memoria storica, per cui quando un governo nazionale impose il salario massimo, i lavoratori rifiutarono semplicemente di lavorare. Imponi quello minimo e ti puoi trovare dei disoccupati che pur di aver nuovamente un impiego si offrono alla metà di quanto pattuito ed in nero. Più o meno quello che avvenne con il maximum del prezzo alle derrate alimentari di prima necessità, alla fine del Settecento. Finirono fuori mercato per l’uso degli accaparratori.

Se si guarda ai salari della Cina, dove pure sono comunisti, si nota che non c’è un salario minimo, in quanto i salari variano da regione a regione e pure vi sono stati momenti in cui si estendevano le detrazioni fiscali ed altri in cui queste venivano ridotte al singolo lavoratore. In Cina quasi ovunque viene previsto un fondo casa, anche qui commisurato al costo degli affitti regionali e quindi è variabile. Poi ci sono persino delle regioni considerate “speciali”, o per lo meno c’erano ai tempi di Deng, che godono di situazioni eccezionali. Tutta questa materia non è ordinata dal governo, ma delle relazioni interne alle aziende che promuovono un loro sindacato. Premesso che la difesa del diritto dei lavoratori in Cina è ancora passabile di carcerazione, il partito chiede di migliorare condizioni che a lungo sono state proibitive. Nel complesso a confronto con i salari europei, quelli cinesi non sono affatto male. Il modello capitalista cinese è quello preso dalla vecchia Singapore preoccupata più della ripartizione dei guadagni che dello sfruttamento degli operai. Il comunismo cinese non accusa il capitalismo di sfruttarti, piuttosto si preoccupa che possa arricchirti. Ad occhio i comunisti cinesi sembrerebbero aver compreso il capitalismo meglio dei socialdemocratici italiani, o quel che sono, escluso il senatore Renzi che ha il merito di non essersi fatto intruppare in questa trovata del salario minimo, su cui il resto dell’opposizione ha modo, beata lei, di compiacersi.

Chiaramente ci occupiamo del caso solo per spirito accademico in una giornata prefestiva. Possiamo tranquillamente escludere che il governo che ha cancellato il reddito di cittadinanza si metta ad approvare un salario minimo. Come ha detto brillantemente un esponente del movimento cinque stelle questa non è una “destra sociale” è solo “una destra da salotto”, cioè comunque più avanzata di una sinistra, o quello che è, tornata dritta nelle braccia del Settecento.

Vizille, Museé de la Rèvolution française

Tags: capitalismoOpposizione
Riccardo Bruno

Riccardo Bruno

Riccardo Bruno si è laureato in Storia della Filosofia presso l'Università di Roma La Sapienza nel 1988. Dal 1987 al 1989 collabora all'Ufficio esteri del PRI diretto dall'onorevole Vittorio Olcese. Dal 1994 è capo ufficio stampa del PRI, dal 1995 giornalista professionista iscritto alla stampa parlamentare. Nel 1999 è capo redattore de La Voce Repubblicana. È stato poi editorialista per il Foglio di Giuliano Ferrara e l'Indipendente di Vittorio Feltri. Dal 2019 è prima vice direttore de La Voce Repubblicana e poi direttore politico

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