Stanno ricominciando. Come se niente fosse. Eccoli: Pregliasco, Burioni, Galli. Reduci da due anni di brutte figure in cui non sono stati capaci di dire una cosa ferma e sicura, contraddicendosi e insultandosi su tutto. Lo abbiamo detto più volte in queste colonne: c’è da compatirli, non è colpa loro. Non è colpa della scienza empirica se è, appunto, empirica, non è colpa della medicina essere arte. La colpa è semmai di quella volontà, magari politica, di spacciare la scienza per verità assoluta a cui dobbiamo dare retta perché non sbaglia mai.
Sono passati i tempi in cui Benedetto Croce prendeva in giro gli empiristi forti, i fisici, i chimici, i matematici, perché intrappolati in una visione del mondo ‘positiva’ che gli impediva una visione complessiva delle cose e dei fenomeni. Anche Husserl, e in tempi più recenti, si congedò dal mondo con un “testamento filosofico” che titolò significativamente La crisi delle scienze europee. La crisi delle scienze, paradossalmente, si è avviata nel massimo apparente trionfo delle stesse. Una crisi che nella sostanza è crisi di senso che il papà della Fenomenologia formula in questi termini: «È in crisi il senso che le scienze hanno per la vita dell’uomo, perché le scienze hanno subito una “riduzione positivistica”». L’idea di scienza, cioè, si è ristretta: è nata, con la filosofia, come episteme ma, a partire dalla modernità, e in modo più marcato dopo l’Ottocento e il Novecento, gli scienziati si sono interessati solo “ai fatti”, per così dire. Le scienze empiriche, le scienze dei fatti, sono un impoverimento del concetto originario di scienza che non si occupava solo del banale aposteriori, ma prendeva in considerazione tutto il processo conoscitivo. Non si occupava solo degli oggetti, cioè, ma cercava di indagare anche quell’esperienza del soggetto che ‘interpreta’ l’oggetto che ha davanti. Le scienze si sono allontanate dalla filosofia e questo ha prodotto anche una decadenza della nostra civiltà, secondo Husserl. Perché l’essere umano non viene visto più nella sua interezza, immerso in un mondo etico, culturale. Ormai le scienze non possono più dirci nulla sui problemi fondamentali della nostra vita. Non hanno per oggetto il vero. Non hanno per oggetto il bene. Non hanno per oggetto il bello. Si limitano a descrivere le cose ma anche questa descrizione è una superstizione, in fondo, perché si lasciano le cose da sole, come se non esistesse il soggetto per cui le cose sono tali. Non si possono costruire, dall’empirico, teorie assolute e universali. Si può costruire una teoria debole, induttiva, che può essere un orizzonte utile, temporaneo, ma nulla di stabile, sicuro, definitivo. Dobbiamo ascoltare Pregliasco, Burioni, Galli con grande attenzione. Dobbiamo dare alla scienza il peso che merita. Dobbiamo però diffidare da chi pretende che l’opinare diventi certezza indiscutibile.
Questa crisi, ha origine in Galilei. È colpa anche del telescopio. C’è uno storico della scienza tra i più autorevoli, Alexandre Koyré che ha intitolato un suo saggio Dal mondo del pressapoco all’universo della precisione. Questa rottura si è avuta cioè con l’introduzione nel mondo scientifico dell’idea che tutto lo si debba solo misurare o raccogliere in una formula estrinseca, una sorta di “matematizzazione della natura”. Da allora le scienze positive sono diventate utili alla tecnica e al progresso, e questo non lo si discute. Ma hanno smesso di avere utilità sociale e conoscitiva. Anche l’economia politica è una scienza positiva, per esempio. Pensiamo a quanto sia importante nel nostro quotidiano e a quanto sia citata dagli editorialisti che contano (in tutti i sensi). Eppure oggi l’economia politica è calcolo, appunto, quantità, non si cura della qualità, del nostro benessere, del nostro vivere a pieno, e con dignità, il nostro essere uomini.
Foto Giovanni Battista Amici | CC BY-SA 3.0