Non dovrei dirlo, ma a me l’occhio è andato subito nel risvolto di copertina. E ho colto, svincolato da ogni contesto, una parola: pendolo. Ho subito chiuso il volume e mi sono detto: ecco, ho già la chiave esegetica della mia lettura, non mi occorre altro. Perché conosco l’autore del libro di cui sto per parlare, Antonio De Simone, ne conosco eleganza, interessi e profondità. Perché il pendolo è un’immagine efficace per gli studi di De Simone in genere? Perché ha un punto fisso, e un oggetto fissato soggetto alla gravità. Quando la massa è ferma, e il filo perfettamente verticale, il pendolo è in equilibrio. Agisce in profondità. Quando oscilla tocca problemi, sempre nuovi a ogni oscillazione. Il terreno offre sempre cose diverse. E questa pre-comprensione intuitiva del testo non si è allontanata molto dalle reali intenzioni dell’autore che quel pendolo ha poi citato, nella sua ouverture, per presentarci Georg Simmel “che nelle sue pagine pulsa, nello spirito e nella lettera, oscillando ritmicamente nella sua trama testuale e che procede da Simmel a noi e, viceversa, attraverso Hegel e la potenza del negativo, da noi a Simmel. Dunque Simmel e noi e, parimenti, noi e Simmel”.
Stiamo parlando de Il destino del presente, da poco pubblicato da Mimesis. La domanda di partenza fa già tremare: la storia ha un senso? Ci fa tremare perché in bocca avvertiamo tutti, chi più chi meno, il sapore della sconfitta. Perché la realtà altro che un fine che puoi addirittura prevedere, o indirizzare: la realtà è sempre imprevisto, a dirla con Remo Bodei, “riottosa, indocile alla prognosi”. Ci sono i piccoli, ci sono i grandi attori della storia, i “condottieri delle anime” che calpestano tragicamente sul loro cammino “più di un fiore innocente”. Ma questo grande soggetto collettivo la filosofia fatica sempre a dirlo e a dirlo bene come vorrebbe. Le sfugge il passato e il futuro le si confonde. Così la storia è costretta a un presente più direttamente presente, come vuole Hartog che lo chiama, significativamente, presentismo. La domanda cioè, possiamo articolarla in maniera più compiuta, così: come si può spiegare, oggi, in una fase di “tempo disorientato”, quando “il tempo preme e il presente comanda”, “il mondo al mondo”? Il presentismo è accelerato dalla tecnica, dal deserto del liberismo economico che ci ha ridotto atomi egoisti e che ci costringe a un disperato consumo, dietro a una tastiera, facendo un click per ogni nostro desiderio. Ma anche il click è cronografo, un divoratore di tempo. Un buco nero, una voragine che “sopprime il limite della fine respingendolo in un futuro così lontano da renderlo irrilevante”. L’autore vive la sua biografia e il suo impegno immerso in questo “inquieto suo teresino vissuto nella vertigine e nei paradossi perturbanti e spaesati del tempo, negli eventi spazializzanti della nostra esperienza vissuta”. «Per cui contemporaneità è “una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze”». Il tempo insomma non organizza i problemi in una successione, non ci facilita il compito, ma è un moltiplicatore di contraddizioni. Solo al suo interno però riusciamo a puntare i piedi e a frenare. Come in una bici. Se non va la leva sul manubrio, lasci i pedali e cerchi il terreno. Se non lo fai, ti schianti. Per ogni filosofia che “si senta a casa propria”, anche per quella hegeliana che ti sa dire dove è arrivato lo spirito del mondo (perché la comprensione di un tempo arriva sempre dopo che quel tempo si è compiuto e dispiegato), “vale comunque il principio generale che anche le filosofie del passato sono perennemente viventi. Ri-leggere Simmel è questo puntar i piedi per non venire travolti. Le sue pagine sono quella via ermeneutica e storiografica che ci permette una più matura riflessione sul tempo, sulla storia, sulla filosofia della vita. Simmel conserva ancora “la capacità di sorprendere e di spiazzare chi continua a teorizzare in termini sostanzialistici e dicotomici”. Simmel è il pensatore dell’et-et e non dell’aut-aut. Con e attraverso Simmel “non possiamo più pensare le strutture sociali separate dai processi, l’azione irrelata al sistema, l’individuo opposto alla società, la libertà senza il vincolo, la contingenza sciolta dalla necessità: possiamo, invece, pensare insieme – pur nella loro radicale differenza – Goethe e Kant, Schopenhauer e Nietzsche, ponte e porta, unità e differenza, sintesi e conflitto, individualità e legge”.
Le visioni della storia della modernità hanno tutte un atto di nascita comune: Hegel. In Hegel noi abbiamo avuto una realtà storica come “piena manifestazione dell’assoluto, il luogo dove l’idea logica perviene a se stessa”. Ma razionale è la storia nel suo compimento. La comprensione di un’epoca arriva dopo il suo pieno svolgersi. È la nottola di Minerva, che accompagna Athena nel miti della Grecia: per il filosofo tedesco esce al tramonto e può solo vedere quanto è avvenuto alla luce del sole. Capisce tutto ma non vi ha preso parte. Razionale è la storia nel suo essere compiuta, vale a dire come intero, come totalità. «Non già il singolo evento storico, il quale separato dal tutto non può che subire la dialettica di ogni determinazione finita, ovvero non può che autosopprimersi». La crisi della “soggettività trascendentale” intesa come sapere assoluto (la totalità di tutte le singole determinazioni), porta ad una nuova concezione, che è quella da cui parte la riflessione di Wilhelm Dilthey per esempio: la radicale storicità del soggetto, “il suo appartenere a un orizzonte storico che lo determina, che è presente al suo interno e che gli impedisce di affermare la propria assoluta superiorità e indipendenza dalle cose che lo circondano. Abbiamo così l’unità vivente, l’Erlebnis, l’unità minima di analisi delle scienze storico-sociali. Non più l’uomo di Kant, un puro soggetto conoscente in cui “non scorre sangue vero ma la linfa rarefatta di una ragione intesa come pura attività di pensiero” ma l’uomo tutto quanto “volente, senziente e significante”, raccolto al centro di un’esperienza vissuta “che non arresta il suo fluire in cui sempre si dà la vita umana come contingenza, ma la costituisce per così dire in una serie di nuclei significativi, in cui il passato come non più e il futuro come non ancora, danno l’unico senso possibile della comunanza e della continuità a quanto altrimenti ricadrebbe nell’identico divenire naturale”. L’uomo cioè non è più egemone e sovrano ma una lente prospettica che rende l’esperienza una sfumatura individuale, una interpretazione. Questo vuol dire vivere e ritagliarsi una esistenza piena di senso, “intrecciata con una pluralità di storie collettive”. «Ciascuno porta in sé qualcosa di prezioso, di non ancora sbozzato, come un diamante grezzo che deve essere ancora intagliato in forme geometriche perché possa risplendere in tutta la sua pienezza. La limitazione si può superare non solo intrecciando la propria vita con quella degli altri, ma insieme sviluppando se stessi, rendendosi “luminosi” in forme specifiche».
Il problema della storia attraversa la produzione di Simmel già dai suoi primi testi. «Storia significa formazione dell’evento, vissuto nell’immediato, attraverso gli arpioni dello spirito che costruisce la scienza, allo stesso modo di come “natura” significa formazione del materiale che scaturisce dalla percezione sensibile per mezzo delle categorie dell’intelletto. […] L’uomo che è conosciuto è fatto dalla natura e dalla storia. […] È lo spirito che ha tracciato le rive ed il ritmo delle onde di quella corrente del divenire in cui esso scorge se stesso». L’obiettivo polemico è lo storicismo. Ma esattamente cosa dobbiamo intendere con questo termine? «A fronte della possibile ambiguità di significati che il termine Historismus potrebbe evocare, Simmel mostra subito che lo “storicismo” che egli intende criticare è lo stesso che Husserl a sua volta confutò nel suo celebre saggio Filosofia come scienza rigorosa del 1911. In estrema sintesi, in questo contesto argomentativo, come rileva Léger, il termine “storicismo” può designare innanzitutto, in senso limitato, una certa pratica scientifica “qui fait l’historie pur elle-même”, e che non ha altra ambizione che accumulare i fatti – è questo “fattualismo” che appunto criticava e stigmatizzava a suo tempo Nietzsche nella sua Seconda inattuale. Lo stesso termine si adopera pure, in senso più generale, per definire una filosofia che fa della storia una Weltanschauung e che, come ha notato J. Freund, si divide in due tendenze opposte: una tenta di spiegare dogmaticamente l’insieme del divenire, e pretende di prevedere l’avvenire, a partire da un fattore predominante – progresso, Provvidenza, lotta di classe; l’altra, considerando che i concetti e i valori variano a seconda delle epoche e non hanno che validità contemporanea, approda al contrario a un relativismo scettico».
Simmel è concorde con Dilthey nel ritenere che lo scopo della storia sia conoscere non soltanto l’oggetto del sapere, ma anche del volere e del sentire, partecipando di una sorta di trasposizione psichica. «La peculiarità della comprensione risiede, dunque, […] da una parte “nell’assumere e tenere insieme identità e differenza dei vissuti, immedesimazione ed estraniazione, riproduzione interiore e distanza gnoseologica”, dall’altra nel riconoscere che “sarà possibile comprendere lo stato d’animo altrui e perciò anche gli atti in cui quello si rappresenta, soltanto avendolo già esperito in precedenza”. Quest’ultimo processo, inoltre, esige “non solo il pieno coinvolgimento della soggettività di colui che comprende, ma anche una preliminare comprensione di sé”. Di fatto, dice Simmel, “chi non ha mai amato non comprenderà mai chi ama, il collerico non comprenderà mai il flemmatico, né il vile l’eroe e neppure l’eroe il vile. E viceversa la nostra comprensione dei gesti, delle espressioni del volto e delle azioni altrui risulterà tanto più facile quanto più spesso noi stessi abbiamo esperito gli affetti simboleggiati da quegli atti. Io capisco, sintetizziamola così, se ‘esperisco’. E da questo deriva la difficoltà più evidente: io ho difficoltà a capire pensieri, sentimenti, desideri che non ho vissuto io, ma questo non mi impedisce, se voglio conoscere un altro, di mettermi dentro i panni suoi. Non bisogna essere Cesare per capire Cesare, né Lutero per capire Lutero. Un agire furbetto che non ci risparmia dalla ‘paradossalità’ della dimensione storica, perché sono sempre e comunque chiamato a fare rivivere adesso e qui, quanto successo allora e altrove. Simmel fa seguire al suo studio epistemologico, tutto volto allo studio degli a-priori, una riflessione sul senso della storia, cioè un “senso valido per la totalità dei fenomeni che costituiscono il processo storico”, perché, osserva, c’è stato sempre un interesse piuttosto scarso per il “tentativo dello spirito soggettivo di mantenere in unità il sapere”. «Attraverso un “artificioso isolamento”, la ricerca scientifica specialistica separa e contrappone quei metodi che invece nella prassi del conoscere sono “indissolubilmente legati”». I fatti storici, i fenomeni, hanno invece delle affinità e delle relazionabilità che li rendono un insieme omogeneo, e per questo Simmel introduce categorie quali l’ “aver-valore”, l’ “essere significativo”, l’ “estremo” e il “tipico”: perché la storia ha “un orientamento del tutto diverso” da quello del semplice accadere. «Non c’è storia senza concettualizzazione, senza ricerca di un senso, senza valorizzazione di un dato, senza preosupposti costruttivi meta-teorici».
A questo punto dobbiamo allora chiederci: come si forma la storia? Simmel ci chiarisce questo: c’è sempre uno iato incolmabile tra essa e il suo accadere, una “crepa”. L’accadere ha una struttura atomistica, e noi, con il nostro conoscere storico, riusciamo sì e no ad avere immagini di momenti. La coscienza di un’epoca li mette al massimo in cornice queste immagini, enuclea dal flusso continuo dell’accadere gli eventi storici isolandoli e ipostasizzandoli. Sapere qualcosa vuol dire frantumarla da uno scorrere unico e compatto. Noi non abbiamo lo scorrere, noi abbiamo la discontinuità, e ci resta da discutere giusto su “soglie di frantumazione”. Il presente è qualcosa che fa problema, un ostacolo. Non è qualcosa che semplicemente puoi mettere in una linea, dopo un passato e prima di un futuro. È un futuro passato. L’uomo vive questo presente e vive in questo fluttuante scorrere di eventi, il suo conoscere è in un circolo, perché siamo noi a creare la base per quanto accade di continuo. Siamo gli storici di noi stessi. Diciamo meglio: noi ritagliamo il nostro essere inseriti in un flusso temporale e componiamo il “nostro” quadro storico, isolato, parcellizzato in cui compiamo e ordiniamo i nostri eventi. Questo quadro, questa forma, questo sguardo, è il limite della nostra vita concreta. «La vita è perciò a un tempo al di qua e al di là del limite e lo vede all’interno e al di fuori; tuttavia la vita, intesa nella sua completezza, nella sua unità, ricomprende l’essere limitato e il superamento del limite». Ma essere consapevole del limite, della nostra cornice, vuol dire già andare oltre, superarlo. In questo oltrepassare, per Simmel, c’è tutta la “costellazione fondamentale della natura umana”, un uscire da sé costitutivo che mai raggiunge un assoluto, peraltro inconcepibile. Vedere vuol dire ritagliare, estrarre da una continuità oggettiva, dal flusso eracliteo della realtà. «Le modalità funzionali del nostro vedere creano determinate forme preesistenti; una di esse, tra le più importanti perché capace di identificarsi con l’essenza della vita, è la modalità creatrice dell’arte. Nel caso dell’artista (il pittore) l’atto del vedere si traduce nell’energia cinetica della mano. Si potrebbe quasi dire, afferma Simmel, che “in genere noi vediamo per vivere; l’artista vive per vedere”.
Questo viaggio termina dove era iniziato: con Hegel. È un epilogo in cui ritornano i temi della ouverture. Come se ci tenesse l’autore a dire che stiamo in un unico tappeto musicale. Il filosofo tedesco apre i fuochi d’artificio. La sezione ritmica del gran finale. C’è un perché, ma non lo diciamo.
Aurora e Cefalo di François Boucher | Foto Joyofmuseums CC BY-SA 4.0
Antonio De Simone, un gigante tra i filosofi contemporanei.