Nel suo “Matti da slegare”, ed era il 1975, non è che Marco Bellocchio pensava che i matti non lo fossero, ma che tenerli rinchiusi era criminale. Altresì, nessuno può escludere che Bellocchio giudicasse Aldo Moro esattamente come lo giudicarono le Br, si può invece mettere una mano sul fuoco che egli lo volesse liberare, se non altro per scatenarlo contro la Dc, il suo regime.
Lo sceneggiato di Bellocchio su Moro è metastorico. Non è vero infatti che la folla che si raduna intorno a via Caetani fischia e minaccia i rappresentanti dello Stato, noi ne abbiamo un ricordo attonito e sgomento. È vero invece che inizia a covare quella reazione. Moro diceva che la Dc non sarebbe stata processata nelle piazze. Dopo la sua morte lo fu eccome.
Il Moro di Bellocchio è un antieroe, un antiStato, un cristiano che non vuole essere martire. Quando esce dalla sua cella di detenzione dice al suo carceriere, “mi saluti i suoi amici”, sa che lui non ne ha più. Moro rimane fino in fondo l’uomo del compromesso, un democristiano. Potesse includerebbe nel governo della cosa pubblica, dopo il Psi ed il Pci, anche le Brigate rosse. Questo proprio mentre il suo partito cambia registro. Diventa intransigente e lo sarà, tutto sommato, solo verso di lui.
Bellocchio sembrerebbe spiegare questa scelta della Dc di abbondonare Moro per una mera ragione di ambizioni personali. Il suo sceneggiato si conclude registrando le carriere che hanno consumato i sopravvissuti all’uccisione di Moro, Cossiga che si dimette da ministro degli Interni, diventerà presidente della Repubblica in meno di dieci anni, Andreotti ancora nel 1992 era di nuovo capo del governo, altri avranno avuto il loro tornaconto. Questo non significa che le ambizioni dei suoi compagni di partito abbiano rovinato Moro. Moro viene rovinato da chi lo vuole salvare ad ogni costo e precipita la situazione inavvertitamente. Zaccagnini, quando dice alla moglie Eleonora che non si può cedere al primo colpo, ha ragione. Cede subito il pontefice, con il suo appello ai brigatisti, “mi metto in ginocchio”. Quando la moglie di Moro ascolta il messaggio alla radio di Paolo sesto, lo dice chiaramente ed esce dalla stanza dove sono radunati i figli sapendo che il marito sarà ucciso.
Il Paolo sesto di Bellocchio spiega che coloro che rifiutano la trattativa, in parte lo fanno per senso dello Stato, quello che non mostra Cossiga, incapace di fermare un brigatista anche quando gli passa davanti. In parte invece, perché giocano d’azzardo con le Br. La stessa ambiguità vale però anche per la Chiesa. Da una parte il sentimento umano, dall’altra il colpo di grazia alla Repubblica. Ascoltato l’appello di Paolo sesto, la liberazione di Moro diventa un omaggio alla cristianità. Non è più politicamente possibile nessuna trattativa senza dimostrare l’assoluta inconsistenza della Repubblica, offesa dalle Br, piegata ed umiliata, dall’interventismo della Chiesa.
D’altra parte una volta morto Moro, il nuovo volto granitico dello Stato si sarebbe dovuto affermare con rigore e severità, in tutta la vita pubblica. Questo non avvenne. Poi è plausibile che Bellocchio si interessi molto di più alle relazioni pubblico-privato, alla tragedia intima familiare, all’atmosfera schopenhaueriana che si trascina dietro Aldo Moro in visita alla tomba di famiglia appena comprata, e ovviamente ad uno dei temi dominanti della sua opera, la follia. Moro è pazzo, dicevano i suoi colleghi di partito e scrivevano i giornali. Il nostro paese iniziò a diventarlo allora. Moro doveva essere salvato e pure ammazzato.