Negli archivi del partito repubblicano depositati a via Turba, per lo meno la parte che siamo riusciti a recuperare all’amministrazione successiva a quella di un galantuomo come fu Giuseppe Ruspantini, è conservata la copia de “l’Unità” che riproduce, come usava all’epoca, l’ultimo comitato centrale del partito comunista italiano svoltosi nell’inverno del 1990. All’approssimarsi del Congresso nazionale di Rimini, quello dello scioglimento del Pci, l’onorevole D’Alema, sostenitore della svolta di Occhetto, recitava che lui non avrebbe “mai rinunciato alla sue idealità comuniste”. Cascasse pure il mondo. Nel complesso degli interventi che si possono leggere, potremmo ritenere che D’Alema esprimesse nel modo più avvincente lo stato d’animo dei presenti.
Eppure tutti ricordano come lo stesso onorevole D’Alema, all’approssimarsi della sua presidenza del Consiglio, disse al Lingotto di Torino, che “Craxi aveva ragione, e noi (i comunisti, ndr) torto”, e la neo dalemiana Miriam Mafai mandò subito in tipografia il suo famoso e straziante “Dimenticare Berlinguer”, un best seller della nuova sinistra. Appena insidiatosi a palazzo Chigi, D’Alema invece mandò i bombardieri contro un vecchio compagno come Milosevic. Era quello un periodo in cui il prossimo segretario del Pds- Ds e poi fondatore del partito democratico, Walter Veltroni, spiegava che lui si era iscritto al Pci perché ispirato da, niente popò di meno, John Fitzgerald Kennedy.
Se il vecchio partito comunista, preso dall’ansia di sopravvivenza, si era trasformato in un alfiere della Nato, perché mai non potrebbe farlo una formazione politica che già dalla fine del secolo scorso asseriva che il fascismo era “il male assoluto della storia”? Non si era mai sentita una simile affermazione nei confronti del comunismo da parte di un suo esponente, come quella che fece Gianfranco Fini sul fascismo a cui storicamente non era appartenuto. Abbiamo invece avuto un presidente della Repubblica che da giovane lodava l’Armata rossa mentre occupava Budapest, per impiccare i “nazisti ungheresi” arrivati al governo. Il comunismo infatti preferiva distinguere. I crimini commessi non erano colpa dell’ideologia, era Stalin che sbagliava, come poi avrebbe sbagliato Crusciov e poi Breznev e poi Mao e poi Pol Pot e poi Castro. Insomma, nessun essere umano era all’altezza di una sacra ideologia come quella comunista, tanto che Veltroni salvava il solo Kennedy, simbolo dell’anticomunismo mondiale nei primi anni sessanta. Però nel manifesto del partito democratico, insieme al prete di Barbiana, Don Milani, si evoca Gramsci che con la democrazia non c’entra niente, semmai con il trotskismo, non Kennedy che iniziò la guerra in Vietnam.
Se tanta disinvoltura ha caratterizzato la sinistra, perché stupirsi che la destra non possa fare altrettanto? In casi come questi bisogna rivolgersi ai classici come al celebre Peer Gjnt di Ibsen. L’essere umano è come una cipolla, “sfogli, sfogli e non vi trovi niente”. Invece ecco un’ideologia pronta a tramutarsi nel contrario. Il governo Meloni mostra un approccio diretto al potere che il vecchio partito comunista in tutte le sue trasmutazioni non è mai riuscito ad avere. Né D’Alema, né Bersani hanno mai vinto le elezioni, semmai le hanno vinte democristianissimi come Prodi o Renzi. Meloni invece le ha vinte eccome e con la fiamma tricolore ben esposta nel suo simbolo. Fini l’aveva tolta? Meloni, l’ha rimessa, e questo vorrà pur dire qualcosa.
Che la situazione sia grave, lo si comprende dalla disponibilità del capo dello Stato a fare del 4 novembre una festa nazionale per l’unità d’Italia. La Repubblica quella festa l’aveva cancellata, come tutte le feste della monarchia, soprattutto una che aveva anticipato di quattro soli anni la deriva fascista del Paese. Tanto valeva che la guerra la vincesse l’Austria. Per lo meno il quattro novembre rappresenta storicamente davvero un’identità nazionale, rispetto a chi vorrebbe celebrare nel 17 marzo ciò che rappresenta soltanto la sconfitta dell’istanza repubblicana rispetto a quella sabauda. Perché non c’è solo il fascismo con il comunismo da rinnegare, ma anche l’altrettanto infausta e miserrima esperienza di casa Savoia. Senza la copertura del re i manipoli di Mussolini arrivati a Roma l’esercito li disperdeva a fucilate.