Durante l’intero settennato del presidente Carlo Azeglio Ciampi, il 17 marzo era una giornata qualunque del calendario. Il portale storico del Quirinale annota scrupolosamente come il Capo dello Stato in quella data si trova in visita in Argentina, o incontra in Inghilterra il capo dell’opposizione liberale, piuttosto che ricevere associazioni della pubblica amministrazione, per non dire dei 17 marzo che nemmeno registrano una qualche attività. Ciampi aveva ben chiaro che non c’era nessuna continuità possibile fra la monarchia sabauda e la Repubblica nemmeno per quello che concerne la bandiera. Il tricolore repubblicano non reca più lo stemma cucito di casa Savoia, piuttosto mantiene o recupera lo stendardo a rombo della Repubblica Cisalpina. Per quello che invece riguarda l’unità nazionale. è davvero difficile pensare che possa essere chiamato “Italia”, uno Stato privo di Roma e Venezia e delle provincie che queste comprendevano. Anche nel caso in cui si volesse riconoscere una data che sancisce l’Unità nazionale, indipendentemente dalla forma dello Stato, non sarebbe idoneo nemmeno il venti settembre del 1870, perché annessa Roma dopo il Veneto, resterebbero Trento e Trieste, Non sono forse italiane anche Trento e Trieste? Bisognerebbe aspettare il 1918.
Cosa molto diversa se nel 17 marzo del 1861 si vuole riconoscere il costituendo regno d’Italia dal momento che si era tenuto Il plebiscito nelle provincie napoletane che sancì la fusione al Piemonte e la fine della dittatura di Garibaldi. Sarebbe più che legittimo voler celebrare un capolavoro politico di Cavour che comprende solo due eccezioni, Mazzini, voleva la costituente e non può mettere piede in questo nuovo Stato unificato, e lo stesso Garibaldi che nemmeno riesce a far inquadrare nel regio esercito la massa di coloro che pure hanno combattuto per cacciare i Borboni. Garibaldi nella sua proverbiale ingenuità e buona fede, credeva che l’impresa delle due Sicilie fosse propedeutica per la liberazione di Roma e la guerra all’Austria. Viene congedato ed assegnato alla riserva. Mesta fine di chi aveva infiammato la fantasia dell’intera Europa con un’azione giudicata impossibile.
Due anni dopo, stufo di restare in panciolle, vi sarebbe da discutere dell’ipotesi di arruolarsi nell’esercito del presidente Lincoln, il generale radunerà le sue camicie rosse per trovarsi a sparare contro l’esercito piemontese in Aspromonte. Era forse italiano quello e divenuto straniero lui? Per lo meno ancora quattro anni e Garibaldi con i i suoi sempre più assottigliati volontari tornerà a combattere contro i francesi a Mentana, esattamente come era accaduto nel 1849. Verrebbe da credere che a Roma cadrà il papato quando Garibaldi non dispone più di forze militari sul territorio nazionale. A quel punto Garibaldi si comporterà persino come un cittadino francese, in fondo Nizza, dove era nato, era diventata tale. La sua ultima avventura militare lo vede sessantatreenne aggregato all’esercito di Napoleone III, cosa che farà indignare Mazzini. La rottura questa volta è insanabile. Roma viene liberata allora, quando Mazzini è oramai privo del suo braccio armato e ancora tenta un colpo di mano estremo, concluso con la reclusione a Gaeta. Mazzini dietro le sbarre i bersaglieri regi con i pifferi in testa entrano a Roma. Corsi e ricorsi. Vent’un anni prima era Pio nono a ritrovarsi a Gaeta, ospite del Re di Sicilia, mentre Mazzini lo sarà del re del Piemonte incoronato re d’Italia. Mazzini prigione a Gaeta sembra quasi una specie di risarcimento morale per il papato convinto alla rinuncia del potere temporale. Ecco dunque scorgersi finalmente, fra tante nebbie, l’agognata Patria. Quella per cui, fatto fagotto, si riprende la via dell’esilio.
Museo del Risorgimento Mazziniano di Genova