Quando una potenza militare che ha armato per decenni eserciti in tutto il mondo, dall’Angola, al Vietnam, fino a Cuba, è ridotta a comprare missili dalla Corea del Nord, una sua lontana assistita, e importare droni dall’Iran, il cui esercito è esperto in guerriglia urbana, non ha senso domandarsi se le sanzioni funzionino o meno.
Le sanzioni occidentali hanno messo in ginocchio il comparto bellico della Russia, che era in crisi già dagli anni ‘80 del secolo scorso, quando la tecnologia statunitense ebbe un balzo tale da schiantare la federazione sovietica. Questo divario di armamenti, per cui un gigante come la Russia non è in grado di competere con quelli di cui dispone un nanerottolo come l’Ucraina, è ancora il problema minore del Cremlino. Quello principale è che mancano i soldati. In duecento giorni la Russia ha perso più di 50 mila uomini ovvero una cifra superiore a quella conosciuta in dieci anni di guerra in Afghanistan.
I bolscevichi, “uomini di ferro e d’acciaio”, come li descriveva Majakovskij, ritennero allora che quello fosse un bilancio troppo pesante da sopportare e si ritirarono. Altri duecento giorni con l’esercito ucraino che ha già ripreso diecimila chilometri quadrati nel Lugansk, i russi morti potrebbero diventare centomila.
Le autorità delle repubbliche separatiste avevano promesso un referendum per l’annessione il 15 settembre, data in cui si sarebbe conclusa “l’operazione speciale”. Hanno fatto sapere che il referendum slitterà a novembre. La domanda che bisognerebbe porsi è se i russi, allora, saranno ancora nel Lugansk. Per sostituire truppe combattenti, in particolare i reparti di élite annientati, i loro comandanti ammazzati, perduti i rifornimenti, non basta un decreto governativo. Servono soldi ed in questo momento la Russia non è in grado di indennizzare, come da ingaggio, le famiglie dei soldati caduti. Poi servirebbe anche risvegliare uno spirito guerriero che latita completamente.
A fronte delle richieste di nuove coscrizioni, il consiglio comunale di Pietroburgo ha presentato un ordine del giorno in cui Putin deve venire denunciato per alto tradimento. Magari si tratta di pochi consiglieri comunali, ma con i rischi che corrono con un tale gesto, evidentemente qualcosa si sta muovendo. La rivoluzione d’Ottobre, nacque a Pietroburgo e non per una rivolta di popolo e di operai, come amava raccontare la mitologia sovietica, ma per l’insubordinazione di un intero reggimento stanziato nella Capitale. Nel 1917 i soldati russi erano impantanati nelle trincee di una guerra che non riuscivano a vincere, esattamente come adesso. Il distacco fra lo Zar Nicola e parte del suo esercito dipese dalla leva straordinaria durata ben tre anni. Putin potrebbe avere lo stesso tempo a disposizione prima di crollare. Non fosse che il suo fronte è molto meno vasto e l’Ucraina non ha mai cercato di invadere la Russia come pure fecero la Francia e gli antichi germani. Infine l’insuccesso in Ucraina è evidente, mentre lo Zar avrebbe vinto la guerra.
Il legame fra Putin ed il popolo russo è notevole, vent’anni pieni al potere. Ma lo zarismo stava in piedi da due secoli, era ammantato dalla fede religiosa e pure ha fatto la fine che ha fatto. Non fu risparmiato lo Zar e nemmeno la sua famiglia. Mentre si legge i bollettini del Cremlino, tutto va per il meglio, l’Europa è spacciata, l’America disperata, il gas lo vendiamo ai cinesi, Putin potrebbe ricordarsi che a giorni c’è un anniversario della rivoluzione di Ottobre che lo aspetta.
Diana Smikova