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Le ambizioni di un progetto liberal democratico

Riccardo Bruno di Riccardo Bruno
19 Febbraio 2023
in L'editoriale
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La prima cosa da tenere a mente di un progetto liberal-democratico è che esso per realizzarsi deve diventare il “primo polo” della vita nazionale. Se fosse “il terzo” o anche “il secondo” polo non servirebbe a molto. Soprattutto in un paese come l’Italia dove il progetto liberale della società si ferma nel 1921. Dovendo poi guardare retrospettivamente a quel movimento liberale monarchico notiamo per lo meno un’anomalia rispetto ai liberali in Francia dopo il 1870. Il liberalismo italiano presumeva la libertà della corona e della chiesa che lo Stato francese aveva soppresso o marginalizzato dal 1791. Il nostro liberalismo era stato allevato dallo spirito della Restaurazione che anche a Risorgimento compiuto, unico paese al mondo, elevò la Chiesa al rango di Stato nello Stato, assicurandole un’indipendenza politica ed economica che la Chiesa non aveva raggiunto nemmeno ai tempi del papa re, i cui domini erano molto più limitati. Le grandi liberal-democrazie occidentali invece, quella statunitense e quella britannica, la Francia declinò presto dal suo stato liberale, presuppongono una chiesa esclusa da qualunque funzione pubblica, oppure il capo dello Stato messo anche a capo della Chiesa. Non si era mai vista invece una democrazia cattolica, dove quando si fanno le leggi ed i decreti dello Stato, si sente il parere dei vescovi. A proposito siamo grati alla Santa madre Chiesa di aver evitato commenti sul 41 bis, silenzio che apprezziamo e al contempo pure preoccupa.

Nel 2019 dei deputati del movimento 5 stelle hanno presentato la formidabile iniziativa parlamentare di voler introdurre una norma per la quale “tutte le associazioni o società legate alla religione cattolica o congregazioni “, il cui giro d’affari fosse “pari o superiore ai 100mila euro annui” dovessero “farsi convalidare i propri bilanci da un certificatore esterno”. Questo per poter far riscuotere allo Stato un debito di 5 miliardi di euro, pari a 800 milioni di euro l’anno che gli istituti religiosi avrebbero dovuto pagare fra il 2006 e il 2011, anno in cui il governo Monti modificò la normativa. Nel caso in cui gli istituti religiosi si fossero rifiutati, il testo di legge prevedeva una pena dai 5 ai dieci anni di galera. Se il movimento 5 stelle invece di preoccuparsi di chiudere in casa i cittadini avesse perseguito la necessità di recuperare i crediti dello Stato, si sarebbe posto alla testa del movimento liberale italiano che presuppone appunto che la Chiesa non sia libera affatto. Perché in una società liberal democratica occidentale per l’appunto, lo Stato è libero, i cittadini sono liberi di cambiare lo Stato e la chiesa è obbligata dai suoi compiti spirituali. Abbiamo un apposito modello scolpito nella prima costituzione repubblicana redatta in Italia nel 1849, la costituzione mazziniana. In essa non si parla di libera chiesa e non si prevede ovviamente nessun possibile concordato. Si definiscono invece di “guarantigie” dello Stato offerte alla Chiesa che viene tutelata per la sua esclusiva missione religiosa. È questo il presupposto liberale che investe la repubblica dopo la Restaurazione, cioè quella nata sui moti del 1848 in tutta Europa e sacrificata e disarticolata dallo Stato unitario monarchico del 1870. Per cui quando si parla di riformismo, si tenga a mente che la costituzione vigente deve essere riformata e soprattutto nei rapporti con il Vaticano.

Ovviamente non c’è nessun desiderio scristianizzatore, al contrario. La Chiesa ha saputo svolgere una funzione sociale che lo Stato spesso ha completamente fallito e questo non può essere ignorato. Per l’appunto un progetto liberale oggi deve accompagnarsi ad uno democratico che richiede la partecipazione del popolo e la redistribuzione del reddito. Il progetto democratico prevede una particolare severità dello Stato con se stesso per il quale le sue spese sono sotto controllo, così come va controllata l’autorità della Chiesa. E anche qui purtroppo appariamo molto lontani. Usando sempre come riferimento la costituzione del 1849, si elegge un rappresentante del popolo ogni ventimila abitanti, questo per dare l’idea di come la modifica all’articolo 56 della Costituzione antifascista, abbia reso critico il quadro democratico, senza far risparmiare una lira,- dato che si sono aumentate le prebende ai deputati. Un progetto liberal democratico evita di far subentrare una casta ad un’altra, altrimenti, servirà subito un nuovo progetto liberal democratico per liberarsi di quello appena concluso.

Come si capisce temi di questo genere richiedono uno studio, un approfondimento ed una preparazione articolata e complessa tale che il partito repubblicano di buon grado si era riunito con tutte le forze della tradizione liberale o che ad essa intendevano richiamarsi nel “Progetto per l’Italia” guidato dal professor Cottarelli. Fu un lavoro di più di un anno molto proficuo, per cui non si capisce come mai Cottarelli se ne sia poi andato nel partito democratico, che mai aveva partecipato alla stesura di quel programma, Calenda e la Bonino si sono separati e Italia viva sembrava persino essere stata esclusa da ogni accordo politico così come gli amici liberali. Un progetto liberal-democratico deve ricomprendere tutte queste componenti. Se invece si vuole fare un partito unico liberal-democratico, questo è un altro progetto che per quanto riferito all’interno di questo mondo e possa essere validissimo, non riguarda coloro che un partito ce l’hanno e se lo vogliono tenere stretto. Per rimettere in discussione un partito serve un presupposto di chiarezza e una convinzione di fallimento storico. Per chi ancora celebra ogni anno le idee del 1849, è cosa piuttosto difficile da intraprendere.

Tags: Calendapolo
Riccardo Bruno

Riccardo Bruno

Riccardo Bruno si è laureato in Storia della Filosofia presso l'Università di Roma La Sapienza nel 1988. Dal 1987 al 1989 collabora all'Ufficio esteri del PRI diretto dall'onorevole Vittorio Olcese. Dal 1994 è capo ufficio stampa del PRI, dal 1995 giornalista professionista iscritto alla stampa parlamentare. Nel 1999 è capo redattore de La Voce Repubblicana. È stato poi editorialista per il Foglio di Giuliano Ferrara e l'Indipendente di Vittorio Feltri. Dal 2019 è prima vice direttore de La Voce Repubblicana e poi direttore politico

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