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L’iperbole della verità

User Avatar di Giuseppe D'Acunto
19 Agosto 2023
in Cultura
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La casa editrice milanese «La Nave di Teseo», proseguendo l’edizione delle opere di Umberto Eco, ha pubblicato, nel febbraio del 2023, Quale verità? Mentire, fingere, nascondere, a cura di Anna Maria Lorusso. Si tratta di una raccolta di scritti d’occasione che coprono un lungo arco di tempo, dal 1969 al 2013, e che cade molto opportuna oggi, in un momento storico in cui si parla, sempre più spesso, di “post-verità”, intesa – stando al Vocabolario della Treccani – come un’«argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica». Colpisce la frase che fa da esergo al libro, tratta da uno degli scritti che vengono qui presentati, Sotto il nome di plagio: «Non ci interessano i fatti, ma le parole», frase in cui riecheggia il noto motto nietzscheano: «non esistono fatti, ma solo interpretazioni». Attenzione, però! Eco scrive che i fatti non ci interessano, non che non esistono. In tal senso, se suo intento è di dissolvere il mito dell’obiettività della notizia giornalistica, egli considera, tuttavia, le parole alla stregua di sovrastrutture ideologiche prodotte per coprire e mascherare cose. Non c’è una verità che sta nelle cose, ma queste si prestano a essere interpretate, innanzi tutto, perché una notizia viene scelta, ossia presa a indice di ciò che “fa realtà”, poi collocata in articoli che stanno in un punto, piuttosto che in un altro, del giornale, nonché disposta, nell’impaginazione, accanto ad altre notizie. «A livello di ciascuno di questi elementi abbiamo altrettanti interventi interpretativi». E aggiunge: «Il giornalista non ha un dovere di obiettività. Ha un dovere di testimonianza. […] Cioè […] il compito del giornalista non è quello di convincere il lettore che egli sta dicendo la verità, bensì di avvertirlo che egli sta dicendo la “sua” verità». Opportuna è perciò la distinzione che va operata tra fatti e valori, per cui una cattiva notizia può essere definita come quella in cui l’esposizione di un fatto si mescola con un giudizio di valore.

In un altro contributo, prima richiamato, Eco si sofferma sulla fase istruttoria del procedimento giudiziario cui viene sottoposto, per accusa di plagio, Aldo Braibanti (cui Gianni Amelio, nel 2022, ha dedicato il bel film Il signore delle formiche). Anche qui, i fatti ci sono, solo che essi vengono designati con parole usate non in funzione referenziale, ma emotiva. Il peso della denotazione, gravando sulla connotazione, finisce così per sopprimerla. Infatti, proprio perché ogni processo si basa su segni, cura dell’inquirente deve essere quella di controllare che ogni segno venga usato sempre in modo univoco da tutti quelli che ne fanno uso. Per cui, ecco la secca conclusione che ne discende: «In una società in cui le parole sono usate anzitutto nel loro valore emotivo, gli uomini non sono liberi». Tornando al problema dell’obiettività giornalistica e del valore di verità delle notizie, in questa raccolta troviamo anche lo scritto in cui Eco commentava il film di Marco Bellocchio, Sbatti il mostro in prima pagina (1972): film che racconta cose che la nostra memoria «non deve fare un grande sforzo per ripescarle nella cronaca recente». Tesi di questo film è che il fatto che una notizia sia vera «non vuole ancora dire che sia usata in modo vero». Le cronache dei giornali ci inducono, infatti, a prendere una coincidenza per un segno, il segno per una prova e la prova per una confessione. Sia chiaro, un assassino rimane sempre un assassino, ma, se invade le prime pagine di un quotidiano per stornare la nostra attenzione da uno scandalo governativo, ecco che, giornalisticamente parlando, diventa un assassino inventato. Poiché l’ideologia della notizia a tutti i costi domina minacciosamente l’etica giornalistica, il giornalista onesto dovrebbe sempre chiedersi se egli non stia falsificando i fatti solo per enfatizzarli.


Dicevamo che, per Eco, gli uomini non sono liberi in quella società in cui le parole sono usate anzitutto nel loro valore emotivo. Ora, in che modo noi possiamo esercitare una libertà critica nei confronti dell’informazione? Occorre avere ben chiara la differenza nel rinvio agli oggetti messa in atto dalle immagini e dalle parole. Mentre le seconde stabiliscono un rapporto con la realtà molto ambiguo ed evanescente, per cui possono essere facilmente manipolate, le prime, invece, sono generiche per quanto riguarda il loro funzionamento segnico, nel senso che – al pari di un’impronta lasciata sulla sabbia – fanno riferimento non tanto a oggetti, quanto a categorie di oggetti. Lo prova, ad esempio, il fatto che, data l’immagine di uno sconosciuto, il rinvio all’oggetto si deve non all’immagine stessa, ma alla parola, messa in didascalia, che la accompagna. Per questa via è possibile, secondo Eco, non cadere vittima di quello che lui chiamava «pensiero magico», da intendere non nel senso della magia primitiva, ma come tendenza a vedere ogni cosa come capace di generare se stessa, in quanto legata a un’origine misteriosa e segreta. E proprio il tema del segreto è la chiave che, per Eco, ci permette di intendere la cosiddetta sindrome del complotto, la quale ha avuto una delle sua massime espressioni con i fatti dell’11 settembre. Presupposto di una tale sindrome è il «venir meno del riferimento a dio» e l’imporsi della «conseguente domanda: “Chi c’è al suo posto?”». Uomini o gruppi di potenti cui sono imputabili tutti i mali che ci affliggono. Ecco come noi arriviamo a pensare che dietro a ciò che ci preoccupa si celi un segreto, l’occultamento del quale costituisce un complotto ai nostri danni. Che è anche un modo per liberarci dal peso di tutte le nostre responsabilità. Il punto è che “non vi è nulla di più trasparente del complotto e del segreto”. Perché il primo, se è efficace, prima o poi, risulta evidente.


Mentre il secondo, se è veramente tale, prima o poi, viene alla luce e sarà rivelato. «Complotti e segreti, se non arrivano in superficie, o erano complotti inabili, o segreti vuoti. La forza di chi annuncia di possedere un segreto non è di celare qualcosa, è di far credere che ci sia un segreto. In tal senso segreto e complotto possono essere armi efficaci proprio nelle mani di chi non vi crede». Uno degli ultimi temi trattati nel libro riguarda il criterio per stabilire l’autenticità di un originale. Ebbene, un tale criterio sembra essere utile più a provare che qualcosa è falso che a scoprire che esso è autentico. La nozione corrente di falsificazione presuppone un originale “vero” con cui ciò che supponiamo falso dovrebbe essere messo a confronto. Ma, come abbiamo appena visto, molto deboli sono i criteri di cui noi disponiamo per decidere dell’autenticità di qualcosa. Essi valgono, infatti, per i falsi “imperfetti”, ma vacillano di fronte a un falso “perfetto”. Anzi, quest’ultimo può essere preso senz’altro per autentico, qualora rispetti tutti i canoni prescritti dalla filologia. Resta vero il fatto che noi ci affidiamo, per lo più, a «congetture ragionevoli sulla base di qualche valutazione equilibrata dei metodi di verifica». Ossia ci affidiamo a un’”economia dell’interpretazione”, cosiddetta perché le prove cui mettono capo i ragionamenti persuasivi di cui ci serviamo “è più ragionevolmente economico accettarle che passare il tempo a metterle in dubbio”. E tutto ciò proprio come in un processo, dove un indizio ancora non fa testo, mentre tre indizi sono l’equivalente quasi di una prova.

Foto Annibale Carracci, Allegoria della Verità e del Tempo | CC0

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Giuseppe D'Acunto

Giuseppe D’Acunto: ha insegnato presso le Facoltà di Filosofia de «La Sapienza» e dell’Università Europea di Roma. È direttore editoriale della rivista di filosofia on-line «Consecutio temporum», condirettore della rivista di filosofia «Azioni Parallele», nonché membro del Comitato Direttivo del «Centro per la Filosofia Italiana»

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