Dal punto di vista etimologico, l’aggettivo italiano “mistico” condivide lo stesso retroterra del termine “mistero”, provenendo dal greco myein che vuol dire “tacere”, così che ciò cui esso originariamente si riferisce è alla condizione di chi, in preda allo stupore, rimane muto e senza parole davanti allo spettacolo di tutto quel che lo circonda. Romano Màdera, l’autore del libro che prendiamo qui in considerazione (Lo splendore trascurato del mondo. Una mistica quotidiana, Bollati Boringhieri, Torino 2022, pp. 154), ne fa la chiave di volta della sua proposta filosofica, assumendolo come sinonimo del concetto di «sentimento oceanico» – come lo chiama Romain Rolland in una sua lettera a Freud – o di «percezione estatica»: «uno slancio che connette, che ci scioglie nell’universo; un abbandono potente, la meraviglia per lo splendore trascurato del mondo». Ebbene, chi è colto da questo «sentimento oceanico» o da questa «percezione estatica» esercita la filosofia non come disciplina accademica, ma la incarna come uno stile di vita, proprio nello stesso modo in cui la intendevano gli antichi, per i quali il filosofare aveva, infatti, la finalità di formare degli uomini, soprattutto sotto il profilo di cittadini, ossia di raggiungere uno stato di pienezza di vita, tale da poter ispirare una veduta politica orientata verso il bene e la giustizia. Si tratta, quindi, di un’esperienza sì straordinaria, ma anche molto comune, al di là degli steccati dati dalle diverse tradizioni spirituali e dalle singole appartenenze religiose, capace di attingere a una dimensione che precede qualsiasi codificazione culturale e che si dà così come potenzialmente universale.
Certo – si potrebbe obiettare –, come possiamo disporci serenamente a questa coltivazione dello spirito in un momento storico in cui siamo appena usciti dalla fase più critica del Coronavirus e mentre in Ucraina imperversa ancora la guerra? La contro-obiezione dell’autore è che è proprio nelle congiunture storiche più oscure, problematiche e tremende che vengono messe alla prova le nostre gerarchie valoriali e la direzione stessa delle nostre vite. È in tal modo che si annuncia, in noi, la ricerca di un nuovo orientamento, che siamo incalzati dalla necessità di fornire risposte che siano all’altezza dell’urgenza dei nostri tempi, che ci attiviamo in vista dell’«esplorazione in ogni direzione di tutte le capacità umane». La salvezza definitiva dal virus che ci ha colpito non può venire, infatti, che dalla scienza e dalla tecnica. Ma l’una e l’altra presuppongono, come loro condizione di possibilità, l’esercizio di virtù quali la dedizione, l’impegno, l’immaginazione di nuove soluzioni, nell’assunzione del «rischio pensato e coraggiosamente affrontato».
Màdera afferma che l’esperienza che sta cercando di descrivere nasce da uno «strappo» rispetto alla trama ordinaria della percezione quotidiana, in una condizione che lui chiama di «deautomatizzazione», che essa non ha cause plausibili e precise, ma può essere attivata nelle circostanze più svariate, che quando la proviamo si produce in noi l’impressione di essere di fronte a un qualcosa di “vero” e di “reale”, di essere posseduti da una «gioia senza oggetto», che ci raggiunge come un dono, molte volte, neanche intenzionalmente ricercato.
Ma torniamo al «sentimento oceanico», quale si delinea all’interno dello scambio epistolare intercorso tra Freud e Rolland. Dove quest’ultimo, giudicandolo come estraneo a qualsiasi postulato di fede, ne parla come della fonte da cui emana quell’energia viva che accende e alimenta ogni disposizione religiosa, il primo lo considera, all’opposto, come un’illusione, il cui bisogno nasce da un’aspettativa che trova la sua soddisfazione solo conferendo realtà e verità a fantasie narcisistico-regressive di unitività con il tutto, di pienezza e di felicità. In più, mentre lo scrittore francese lo vede come radicato nella sfera della sensibilità, lo psicoanalista austriaco lo coglie, invece, come un’intuizione di tipo intellettivo, accompagnata però da una certa risonanza emotiva. Dissentendo da questo giudizio di Freud, Màdera si rifà ad alcune riflessioni dello psicoanalista italiano Elvio Fachinelli, per il quale il non riconoscimento, da parte del primo, della dimensione estatica dell’esperienza dipenderebbe dal suo impiego, come chiave esplicativa di essa, della teoria della sublimazione, dove ogni vissuto estatico viene spiegato a partire dal desiderio di ritornare alle percezioni neonatali e alla vita intrauterina. «Troppe testimonianze […] – non solo di momenti estatici, ma di intere vite – ci dovrebbero far dubitare di questa ipotesi [di Freud]».
Màdera passa poi a riflettere sul pensiero di Jung relativo a quella trasmutazione radicale della personalità che, a seguito di un momento di crisi, si verifica quando si dà il passaggio da un “morire” a una vecchia vita al “rinascere” a una nuova: trasmutazione che ha, a tutti gli effetti, una dimensione estatica, in quanto si tratta di diventare non-divisi, infrangendo le barriere riduttive del nostro sentire abituale e costruendo ponti che mettano in comunicazione le parti più diverse di noi stessi, le une più in luce e le altre più in ombra. In tal senso, la crisi suprema vissuta da Gesù sulla croce può essere vista come quell’«evento-passaggio che riguarda ogni vita umana e le molteplici morti che ogni vita deve attraversare per restare viva e non trascinarsi come morta in vita». Nel segno di una prospettiva che non implica necessariamente la fede, dobbiamo guardare cioè alla resurrezione, innanzi tutto, come a un simbolo, tale che ci «indica un senso, una direzione della vita, piuttosto che una realtà empirica accertabile, o un segno riducibile a un concetto».
E una riflessione sul «principio resurrezione» Màdera la rinviene anche in Etty Hillesum: «un esempio di misticismo irriducibile a una classificazione, o a un copione, di tipo teologico». In lei, si può rintracciare una vera e propria «prova della croce», vista come una ricerca tesa a dare «un senso all’Inferno della storia presente e passata. […] Un senso che resiste e vince su Auschwitz, e nella sua vittoria contiene abbandono e morte, ma osa dire un’altra parola, ancora. Vita che rivince dopo ogni perdita. Dopo che tutto è perduto». Nel tempo abissale della morte di Dio, a Etty dobbiamo un tentativo di salvarlo dai nostri «fallimentari tentativi giustificazionisti», di farlo risorgere, dissotterrandolo, in noi, da tutti i rivestimenti, oggi non più credibili, che lo ricoprono.
Nel suo proposito di ricostruire le linee di una filosofia del «sentimento oceanico», tale che possa fungere da fondamento per una spiritualità laica, Màdera si serve anche di altri appoggi, costituiti dai nomi della socialista rivoluzionaria Rosa Luxenburg, del filosofo e teologo Raimon Panikkar, dello storico della filosofia antica Pierre Hadot, del monaco buddista Thich Nhat Hanh. Ma viene ricordato anche Nietzsche, per aver indicato nella intuitio mystica il senso e lo scopo stesso di ogni filosofare. In conclusione, scrive: «Poiché l’umano è un quasi niente destinato a morte, sparizione e oblio, l’unica possibilità di accettare la necessità del suo destino è il mistico».