«Gli umanisti della prima generazione, continuando una tradizione medievale, avevano considerato la storia come un compendio di exempla, utili a proporre e a promuovere comportamenti etici e virtuosi. A partire dal XVI secolo, gli umanisti cominciarono a proporrerre gli exempla, non in funzione di comportamenti morali astratti, ma piuttosto in funzione di comportamenti politici. Questo atteggiamento e questo modo diverso di concepire la storia e le sue finalità, si connettevano con una nuova concezione dell’uomo, non più visto alla luce della salvezza eterna, ma alla luce della sua identità di magnum miraculum, admirabile animal, faber sua fortunae. La dignitas hominis non era soltanto una possibilità legata alla consapevolezza di essere creato a immagine di Dio, ma l’intelligere doveva sempre rivolgersi all’agire. L’uomo, dunque, non più piegato in se stesso come colui che sente di continuo risuonare le trombe del giudizio, vivendo in funzione della morte, assume ora una posizione eretta; promuove attività economiche, crea ricchezza, va alla ricerca di paesi nuovi, produce cultura, commissiona opere d’arte, edifica palazzi, torri e città». In questo contesto furono pensate e scritte le opere dedicate a Riccardo III, quella di Tommaso Moro e quella di Polidoro Virgili, lo storico urbinate che la ebbe commissionata da Enrico VII: la Anglica Historia.
Romano Ruggeri, già professore di Storia del Rinascimento presso l’Università di Urbino, ha tradotto e introdotto il Riccardo III (in un’elegantissima edizione pubblicata da Morlacchi), un ritratto ambiguo e nero, appassionante come un romanzo, una vita che fa storia, che è storia, cioè “strumento di comprensione della vita sociale in atto e insieme guida per l’azione politica”. Perché tutto sta lì, nel nostro passato e insegnare a noi pessimi scolari come si legge e vive il presente. La storia è Spirito, è il suo svolgersi e il nostro agitarsi, con l’agitarsi dei suoi eroi diventa anche direzione, vettore. Ogni fase del suo sviluppo indica la fase successiva. Virgili dà soprattutto conto, dopo la presa del potere da parte di Riccardo III, “della formazione di due diversi schieramenti contrapposti […], che miravano tuttavia verso un unico fine: la cacciata dell’usurpatore e l’insediamento di un nuovo re, nella persona di Enrico di Richmond”. «Il primo, raccolto intorno alla regina e il secondo con a capo Buckingham; entrambi, comunque, ponevano come condizione ad Enrico di Richmond, una volta ottenuto il potere, di sposare Elisabetta di York, figlia di Edoardo, e così riunire le case York e Lancaster».
«Mentre accadeva tutto questo, Riccardo fu informato della congiura; colpito dalla infausta notizia e constatando di non avere l’esercito nel caso di una battaglia improvvisa, incerto dove stare o andare, decise di dissimulare un po’, in attesa di mettere insieme il suo esercito. Intanto, attraverso le dicerie del popolo o le informazioni delle spie, cercava di sondare le intenzioni e i piani dei suoi nemici, sperando di mettere la mani su qualcuno dei congiurati. A volte, non ci sono insidie più nascoste di quelle che si celano nelle dissimulazioni dell’intelligenza o in una qualche parvenza d’umanità. Poiché aveva saputo che il duca di Buckingham era il capo della congiura, penso anzitutto di farlo uccidere di nascosto; perciò con lettere molto affettuose, lo invitò a corte e raccomandò al nunzio, latore delle lettere, di promettergli molte cose per convincerlo a tornare alla reggia. Il duca, scusatosi per una indisposizione di stomaco, rispose al nunzio di non essere in condizione di presentarsi a lui. Riccardo non accettò le scuse, anzi con minacce gli ordinò di venire…».
«Regnò due anni, due mesi e un giorno. Era basso di statura, aveva un corpo deforme: una spalla più alta dell’altra, una faccia piccola e feroce, che sembrava emanare malvagità e gridare frode e inganno. Quando era preso da qualche pensiero, si mordeva continuamente il labbro inferiore rivolgendo contro se stesso la natura ferina riposta in quell’esile corpo. Portava sempre un pugnale che con la mano destra nascondeva a metà del fodero. Aveva un’intelligenza acuta, perspicace, scaltra, atta a fingere e simulare; l’orgoglio e la ferocia non l’abbandonarono nemmeno nel momento della morte, la quale, abbandonato dai suoi, preferì cercare nella spada piuttosto che in una vile fuga, evitandosi così una vita incerta e forse interrotta da una breve malattia o da supplizio».
Nella foto un momento della presentazione