L’avvocato Flavio Leardini iscritto al Pri di Verona, ha inviato il seguente studio sulla direttiva comunitaria sulle case green e gli obiettivi di sostenibilità ambientale ,che sottoponiamo volentieri all’attenzione dei nostri lettori.
Con l’approvazione da parte del Parlamento della Comunità europea avvenuta il 12 marzo 2024, è entrata nella fase finale per l’entrata in vigore la direttiva comunitaria sulle cd. case green, che prevede una serie di macro-obiettivi di sostenibilità ambientale, in primis il raggiungimento della neutralità climatica degli edifici entro il 2050 ed il 55% della riduzione dei consumi energetici da conseguire attraverso la ristrutturazione degli edifici con le prestazioni inferiori.
Per avere un’idea dell’impatto dell’implementazione nel nostro Paese della normativa europea si pensi che il Rapporto annuale dell’Enea sull’efficienza energetica del 2023, riferito a dati disponibili del 2018 (che fissano in 12,2 milioni di edifici lo stock edilizio nazionale complessivo, a cui secondo i dati del Censimento ISTAT 2011 corrispondono 31 milioni di abitazioni) evidenzia che il 17,6% degli edifici risultava realizzato prima del 1918, il 28,9% tra il 1919 e il 1945. Circa il 65%, poi, era rappresentato da costruzioni antecedenti alla prima legge introduttiva di criteri per il risparmio energetico nel 1976; inoltre il 22% della superficie riscaldata era relativo ad un’epoca di realizzazione precedente il 1945 ed un ulteriore 42% all’epoca 1946-1980 (ENEA, Rapporto annuale sull’efficienza energetica 2021). Dallo stesso Rapporto ENEA del 2023 si desume che le transazioni immobiliari avvenute nel 2022 e riferite ad edifici a destinazione residenziale, suddivise per categoria (monolocale, bilocale, trilocale, villetta a schiera, unifamiliare) hanno riguardato per oltre il 70% complessivo immobili appartenenti alle tre classi energetiche deteriori (E, F, G), le più distanti dagli standards europei.
Il tutto, per l’edilizia residenziale, va rapportato alle caratteristiche sociali della proprietà immobiliare nel nostro Paese. Secondo i dati Eurostat in Italia percentuale di proprietari di casa è pari al 73,7% (percentuale che il Rapporto 2020 dell’Agenzia delle Entrate e del Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia eleva al 75,2% – riferita alle famiglie italiane -).
In base a quanto rilevato in un ulteriore Rapporto ENEA relativo all’incidenza del Superbonus sullo stock immobiliare italiano ed aggiornato al febbraio 2024, sono stati 480.815 gli edifici interessati dai lavori di efficientamento energetico e ciò ha comportato 114 miliardi di investimenti totali. Un numero di costruzioni enormemente ridotto rispetto al novero degli edifici da adeguare agli standards comunitari di imminente introduzione, che tuttavia ha inciso in maniera estremamente pesante sui conti pubblici; tanto che il governo in carica è intervenuto a più riprese con misure di contenimento dei costi a carico dell’erario, per il finanziamento dei benefici connessi agli interventi edilizi agevolati dalla legislazione degli ultimi anni.
A questo punto, se si considera che, in base al rapporto del 2020 del Dipartimento delle Finanze del MEF e dell’Agenzia delle Entrate “le abitazioni possedute da persone fisiche hanno un valore complessivo, includendo anche le relative pertinenze, di 5.526 miliardi di euro, mentre il valore complessivo del patrimonio abitativo supera i 6.000 miliardi”, risulta evidente come, anche ammettendo che gli adeguamenti agli standards comunitari comportassero un costo complessivo pari al 10% del valore del patrimonio immobiliare privato a destinazione residenziale (stima oltremodo prudente, attesa la descritta vetustà della gran parte delle costruzioni), si arriverebbe a cifre iperboliche. Gli ipotetici ed assai cauti 552 miliardi di euro rappresentano infatti una somma pari a qualcosa come 23 manovre finanziarie del tipo di quella del 2024 (di circa 24 miliardi di euro) oppure oltre un terzo del PIL italiano del 2019 (1787,7 miliardi di euro) o, ancora, poco meno del triplo del complessivo stanziamento straordinario europeo a favore dell’Italia del cd. Recovery Fund (191,5 miliardi di euro, dei quali 68,9 a fondo perduto e 122,5 in prestiti).
Anche a voler essere oltremodo ottimisti, restringendo al massimo la stima dell’entità dei costi complessivi da sostenere e senza neppure considerare che la direttiva europea indurrà giocoforza un incremento della domanda di materiali ed impiantistica edilizia su scala continentale, con conseguenti aumenti dei costi non preventivabili, risulta evidente che le opere di adeguamento degli immobili abitativi non potranno essere sostenute dal ricorso ad erogazioni di risorse pubbliche massive. Non quelle nazionali, che non reggono neppure il ben più contenuto impatto del Superbonus, né quelle comunitarie, che a fronte dell’emergenza epocale del covid hanno compiuto uno sforzo straordinario stanziando a fondo perduto per l’Italia meno di 70 miliardi di euro e non si vede come potrebbero essere indotte ad intervenire più generosamente per finanziare opere riferite a situazioni non certo imprevedibili ed incontrollabili come una pandemia.
Da parte di alcuni si è lumeggiata la possibilità di reperire le risorse attraverso un’imposizione di tributi straordinari di scopo a carico delle grandi ricchezze. Senonché anche questa idea sembra non reggere alla prova dei numeri. Secondo una ricerca aggiornata al 2022 di Altrata (divisione di Euromoney Institutional Investor PLC) in Italia gli ultraricchi con patrimoni superiori a 30 milioni di dollari risultavano essere 8.930, per un capitale complessivo di 897 miliardi di dollari. Entità monetaria nominalmente capiente solo rispetto alla stima prudenziale ipoteticamente qui proposta, ma che non si vede come potrebbe essere incisa in misura superiore al prelievo fiscale ordinario senza rischiare di ledere, ad esempio, la tutela della proprietà privata riconosciuta dal Primo Protocollo addizionale della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (per intenderci: si tratta dei principi che hanno portato a ripetute condanne dell’Italia quando ha legislativamente previsto criteri indennitari per gli espropri non connessi ai valori di mercato delle aree). Per non dire dei tempi di recupero delle somme a fronte di un atteggiamento non spontaneamente ed immediatamente collaborativo dei soggetti passivi del prelievo straordinario di scopo. Per altro, tale tributo, a tutto voler concedere, potrebbe al più fornire un gettito basato su percentuali molto limitate, le uniche che sarebbero in grado verosimilmente di superare un giudizio di ragionevolezza anche rispetto a delle possibili censure di costituzionalità. Mentre d’altro canto, se l’imposta straordinaria di scopo sulla proprietà immobiliare gravasse in modo diffuso sui proprietari di casa, non si farebbe altro che sottrarre risorse a quella massa ingente di persone del ceto medio e medio basso proprietari di immobili, ai quali pure si richiede, al contempo, di apprestare le opere di adeguamento dei loro edifici. Sempre, ovviamente, che non venga dato corso alla soluzione più scellerata, che consisterebbe nel varare una normativa di rango ordinario attributiva di incentivi attraverso il meccanismo dei titoli abilitativi formati con autocertificazioni dei proprietari e/o progettazioni asseverate; per poi fissare criteri applicativi restrittivi, vaghi, astrusi con le disposizioni regolamentari attuative, determinando in parte un forte deterrente ad avvalersi delle facilitazioni e, per altro verso, una situazione di sostanziale illiceità diffusa ed indotta dall’oscurità/contraddittorietà dei meccanismi regolamentari, così aprendo la via a procedimenti seriali di revoche ed irrogazione di sanzioni.
Se quanto fin qui osservato vale a smentire le illusioni di una facile percorribilità economica della conformazione agli standards europei, la gravità al momento distrattamente sottaciuta della situazione italiana in rapporto alla direttiva case green presenta un fronte per certi versi ancora più oscuro e pericoloso.
Si tratta della considerazione dell’incidenza dell’abusivismo edilizio rispetto agli interventi che saranno richiesti dal recepimento della direttiva, in rapporto al regime di circolazione dei beni immobili.
A proposito di quest’ultimo, la Corte Suprema di Cassazione nel 2019 ha posto fine ad una diatriba ventennale delle sue Sezioni semplici riguardante l’individuazione della corretta interpretazione della norma che sanziona con la nullità dell’atto negoziale di trasferimento inter vivos la cessione di immobili affetti da irregolarità urbanistico edilizie (principio introdotto con gli artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985 e poi ripreso dall’art. 46 del DpR n. 380/2001 – cd. Testo unico dell’edilizia). Tra i due orientamenti che si fronteggiavano, quello per il quale la nullità in questione colpisce contratti che si riferiscano a costruzioni effettivamente irregolari per essere difformi dal progetto assentito (tesi sostanziale), e quello secondo cui la nullità deriva dalla mancata enunciazione nel contratto di trasferimento immobiliare degli estremi del titolo abilitativo edilizio (tesi formale), le Sezioni Unite Civili, con la sentenza 22 marzo 2019, n. 8230, hanno optato per la seconda. Ciò significa che sono legittimamente trasferibili e dunque sono regolarmente circolanti sul mercato, le costruzioni irregolari, salvo che non si tratti di fabbricati realizzati in totale assenza di un titolo abilitativo nonché, seguendo l’argomentazione della pronuncia, le costruzioni realizzate in totale difformità dal titolo astrattamente presente ed enunciato nel contratto (in pratica, i fabbricati completamente diversi e funzionalmente autonomi rispetto a quelli previsti nel progetto approvato o comunque presentato al Comune). Senonché, dice la Cassazione, permane sugli edifici irregolari legittimamente trasferibili l’applicabilità della disciplina pubblicistica di repressione degli abusi edilizi, che non è soggetta a termini di prescrizione o di decadenza, per concorde giurisprudenza dei giudici amministrativi e della stessa Corte Costituzionale. L’unica possibilità di sanatoria è quella prevista dall’art. 36 del DpR n. 380/2001, che la sottopone alla condizione della cd. doppia conformità: quanto realizzato irregolarmente può essere sanato nel solo caso in cui risulti conforme alle disposizioni legislative e regolamentari applicabili tanto all’epoca di realizzazione dell’abuso, che a quella di presentazione della domanda di sanatoria. Al di fuori di questa ipotesi e di quelle più circoscritte previste dall’art 34 del DpR 380 (impossibilità di demolizione della parte difforme senza pregiudizio della parte conforme del fabbricato, che per altro non è una sanatoria) e dall’art. 34 bis (tolleranze del 2%), l’irregolarità edilizia non può essere sanata. Il Comune può procedere all’irrogazione della sanzione demolitoria non solo per i fabbricati completamente privi di titolo abilitativo o totalmente difformi dallo stesso, ma anche per tutti i casi di variazioni essenziali (es. spostamento significativo della collocazione del realizzato rispetto alla posizione prevista dal progetto, aumento significativo di cubatura) e difformità parziali (variazioni meno significative di quelle essenziali, ma superiori alle tolleranze del 2%). Questa attività repressiva può avvenire senza limiti di tempo ed anche nei confronti di nuovi proprietari del tutto in buona fede ed estranei alla realizzazione della difformità (principio pacifico in giurisprudenza), che hanno acquistato validamente in quanto il titolo abilitativo edilizio era menzionato nel loro contratto e non si era in costanza di una totale difformità.
Questa situazione ha ricadute rispetto all’applicazione della direttiva? Se il legislatore non interverrà opportunamente le conseguenze ci saranno e particolarmente gravi: gli immobili legittimamente oggetto di atti di trasferimento della proprietà, ma con elementi di irregolarità che non ne consentano la sanatoria per doppia conformità non saranno suscettibili di interventi di adeguamento agli standards europei. Non possono essere infatti eseguiti interventi edilizi su costruzioni irregolari che non vengano previamente sanate, perché ciò equivale a proseguire nell’attività abusiva, riprendendola laddove fosse stata posta in essere e terminata anche svariati decenni innanzi. Il nuovo proprietario incolpevole che si ritrovasse a dover eseguire opere per adeguare un fabbricato legittimamente acquisito, in quanto realizzato ad esempio in forza ad una concessione edilizia regolarmente rilasciata e indicata nel contratto di acquisto, ma con irregolarità edilizie non sanabili, incorrerebbe non solo nelle sanzioni amministrative demolitorie, ma anche in quelle penali.
Si potrebbe dire: d’accordo, ma in fondo questo toccherà solo a qualche acquirente che abbia incautamente fatto affidamento sulla regolarità del rogito notarile comprensivo dell’enunciazione della concessione edilizia o del permesso di costruire, mentre avrebbe dovuto con maggior diligenza, prima dell’acquisto finale, richiedere copia dei progetti depositati in Comune ed incaricare un tecnico della verifica della loro piena corrispondenza a quanto posto in opera. Una impostazione del genere non terrebbe affatto conto della realtà. Le analisi statistiche disponibili sugli abusi edilizi riguardano gli abusi cd. primari, ossia i fabbricati (eminentemente quelli residenziali) realizzati senza alcun titolo. Secondo una elaborazione di Openpolice del 2023 eseguita su dati ISTAT, nel 2021 l’edilizia residenziale in Italia presentava un indice di abusivismo medio – inteso, si ripete come totale assenza di provvedimento amministrativo legittimante – di 15,1 fabbricati abusivi ogni 100 realizzati (con incidenza territoriale specifica molto diversificata tra le regioni, variando da 4 a 49 ogni cento).
Per dato di comune esperienza gli abusi primari sono nettamente più ridotti dal punto di vista quantitativo delle variazioni essenziali e delle difformità parziali; incidono di più, perché comportano insediamento di volumi e sviluppo di carichi urbanistici totalmente fuori controllo, ma le irregolarità meno importanti e non sanabili sono diffusissime. Al punto che varie leggi regionali hanno cercato di ovviare al problema introducendo delle disposizioni che associassero l’individuazione dello stato legittimo del fabbricato a documenti diversi dalla concessione edilizia o dal permesso di costruire, come il certificato di agibilità/abitabilità che viene rilasciato dopo l’esecuzione integrale dell’intervento edificatorio. Tuttavia la Corte Costituzionale ha costantemente censurato queste soluzioni, ritenendo che la doppia conformità stabilita dalla legge statale sia un principio generale della materia del governo del territorio e come tale non possa essere derogato dalle normative regionali. Cosicché, per riprendere un caso recente, alla difesa della Regione Veneto, la quale, al fine di sostenere la legittimità della legge regionale con cui si individuava lo stato legittimo del fabbricato nel certificato di abitabilità, faceva leva sulla considerazione della consolidata prassi di consentire per lo meno fino al 1977 (entrata in vigore del regime della concessione edilizia) variazioni non essenziali, la Consulta ha negato possa essere argomentazione dotata di rilevanza (sentenza n. 217/2022). Per la Corte Costituzionale già la legge urbanistica fondamentale del 1942 prevedeva un controllo delle realizzazioni edilizie ad opera del podestà e le normative successive si sono innestate su quel principio, specificandone la portata. Per tal via si è trascurato il dato fattuale che il controllo del podestà a cui subentrò subito il sindaco (che fu la vera figura su cui si misurò la legge urbanistica fondamentale del 1942), non fu mai effettivo sia per carenza di preparazione specifica, sia per il fatto che demandare il controllo ed i poteri sanzionatori ad un organo elettivo che trova la sua investitura nel consenso espresso dagli elettori, non era certo un modo per garantire l’efficacia delle verifiche. Al punto che solo nel 1977, in una con l’introduzione del regime della concessione edilizia, si posero i concetti di totale difformità, assenza di concessione e di parziale difformità (art. 15 L. n. 10/1977). Concetti enunciati in via generale, che troveranno solo nella posteriore L. n. 47/1985 una formulazione definitoria, calibrata su alcuni elementi stereometrici relativi alla conformazione degli edifici. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale la continuità della normazione in punto controllo e repressione degli abusi edilizi non vi è stata e le normative del 1977 e del 1985 sono intervenute proprio sul presupposto della sostanziale ineffettività della prevenzione e della repressione.
Come per gli aspetti relativi al finanziamento degli interventi innanzi ricordati, se pure questi risvolti non verranno rapidamente enucleati e non si appronteranno dei rimedi, la direttiva comunitaria rappresenterà un pericoloso cul-de-sac che, per la diffusione del problema, potrà generare ricadute politico-istituzionali preoccupanti. I proprietari di fabbricati con abusi secondari non sanabili rappresenteranno un esteso gruppo sociale di interessi omogenei, alla ricerca di una rappresentanza politica in grado di supportare le loro aspettative di non subire un drastico deprezzamento del valore dei propri beni e l’esposizione a sanzioni demolitorie. Ciò farà il gioco degli artefici della politica più torbidamente clientelare, con tutto quello che essa comporta in termini di deriva istituzionale, di stimolo allo sviluppo (o al rafforzamento) di satrapie e di potentati locali e regionali frutto di un dark deal col corpo elettorale. Una seria e tempestiva riflessione, che porti a scelte politiche e a traduzioni in termini normativi conseguenti, appare dunque ineludibile.