Ritengo che il prossimo consiglio nazionale del partito del 26 novembre, visto che cade in un momento cruciale per le istituzioni e la politica italiana, debba essere un importante momento di riflessione, di discussione e, se possibile, finalmente di comunicazione all’esterno delle posizioni dei Repubblicani. In tutta umiltà credo infatti di poter rilevare che abbiamo tante risorse attuali e potenziali, ma mi pare che non brilliamo certo in quanto a comunicazione politica e in quanto a presenza sugli organi di stampa. Un punto su cui sto provando ad impegnarmi, soprattutto insieme al segretario Saponaro, nell’interesse del partito. Il consiglio nazionale cade nella contingenza dell’avvio del governo Meloni, una svolta importante sia perché si torna ad un governo che ha avuto l’investitura degli elettori, sia perché ci troviamo di fronte ad un esecutivo di Destra-Centro. Mentre i nostri amici, Calenda e Renzi, provano a posizionarsi in qualche modo seguendo anche la linea di qualche avvicinamento verso la presidenza del Consiglio (visto che tra l’altro ci sono importanti posizioni istituzionali in parlamento possibili da conseguire), mi chiedo e mi sono chiesto, come già in parte sto facendo con la mia attività da editorialista in qualche giornale, quale possa essere il posizionamento e il metodo di azione verso questo governo del PRI. Ebbene, c’è poco da inventare, i lettori possono fare mente locale su quale era lo stile, la prassi del Pri, ai tempi di Ugo La Malfa, di Giovanni Spadolini, di Giorgio La Malfa, verso i governi, che fossero di centro sinistra, di solidarietà nazionale o di Pentapartito. Ciò che distingueva il Partito Repubblicano rispetto qualsiasi altro partito, alla luce soprattutto dell’impronta che gli aveva dato Ugo La Malfa, di “partito dei contenuti”, fatta poi propria anche da Spadolini, era che sia al momento della formazione delle coalizioni e dei governi, sia durante la vita ordinaria dei governi, i Repubblicani incalzavano i presidenti del Consiglio e le coalizioni di governo su dei precisi contenuti, spesso condizionando a questi contenuti la loro critica, l’adesione, o l’appoggio esterno che fosse, ai governi. Non c’è quindi molto da inventare, c’è da recuperare le nostre radici, il nostro stile, il nostro metodo di azione politica, per certi versi in linea con i valori tradizionali repubblicani, in altri versi alla luce delle questioni che incidono oggi sull’agenda politica e di governo.
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Si pone in primo luogo la questione della politica estera soprattutto nella versione di “politica europea”. Per le loro tradizioni e per i loro valori i Repubblicani hanno apprezzato molto il modo di stare in Europa di Draghi. Giorgia Meloni si è messa in parte sulla scia della bussola del governo precedente per quanto riguarda gli aspetti della politica economica, ma fatica ancora a trovare un modo di stare in Europa che dia al nostro paese un rango come quello avuto durante la fase dell’esecutivo Draghi. Credo che la Meloni provi a fare molti sforzi, ma debba combattere un po’ con la sua impronta originaria di sovranista, che crede che l’Europa debba essere una confederazione di nazioni su una base diversa da quella prevista dai trattati europei. Una caratteristica che ci è sembrata evidente nelle note vicende sull’immigrazione e che si è vista, per certi versi, sia quando all’inizio del suo mandato il presidente del consiglio italiano sembrava voler modificare sostanzialmente il PNRR, sia nei troppi applausi, che credo non accolga con estremo piacere, che giungono dall’Ungheria e dalla Polonia. Ebbene, la funzione dei Repubblicani dovrebbe essere quella di incalzare questo presidente del consiglio perché giunga finalmente ad una posizione da europeista, perché l’Italia recuperi il rango ottenuto durante il governo Draghi ed affinché quei rigurgiti di sovranismo, che stanno scemando in un governo che si dice ormai Conservatore, si attenuino sempre di più fino a scomparire. Poiché credo che siamo storicamente il partito italiano più europeista è un dovere per noi presidiare questo genere di contenuti ed incalzare il presidente del consiglio perché la rotta del governo prosegua senza che le fiancate della nave ne risentano troppo.
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Dei veri Repubblicani, poi, incalzerebbero il governo sui temi della finanza pubblica visto che, nonostante si affermi di essersi collocati sulla scia del governo Draghi, il deficit e il debito pubblico fissati come obiettivi per il prossimo triennio sono chiaramente maggiori di quelli fissati in precedenza. Per fortuna c’è un ministro dell’economia che è stato molto vicino a Draghi e che ha interesse a tenere la barra a dritta, anche se credo non abbia vita facile visto che deve combattere con Salvini che vuole normative che sfonderebbero i già traballanti serbatoi dei conti pubblici. Anche su questo i Repubblicani possono in termini molto semplici e lineari, come erano sempre adusi a fare, essere un presidio ed incalzare il governo. Cito solo altri due punti per non correre il rischio di dilungarmi troppo.
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Vengono poi le questioni del lavoro, del reddito di cittadinanza, della disoccupazione giovanile. Ricordo bene, infatti, i contrasti, pur nella stima reciproca, tra Ugo La Malfa e Luciano Lama sui temi del lavoro e dell’occupazione, e credo che bisognerebbe recuperare uno spirito simile. C’è una araba fenice che pesa sul mondo del lavoro e si chiama “politica attiva del lavoro”. Da ultimo nel governo Draghi un ministro del lavoro ad eccessiva impronta postcomunista non ha fatto sostanzialmente niente in quanto a politica attiva nel mercato del lavoro. Un tema su cui in Italia con poteri e ruoli ben diversi, già durante la fase del Governo Draghi, eravamo solo in due ad incalzare: il presidente di Confindustria Bonomi, con ben più autorevolezza di me, ed io, con la mia attività giornalistica. Per me non era difficile perché attingevo alle lezioni avute da ragazzo da Ugo La Malfa e non avevo mai smesso di occuparmi di questioni di occupazione e mercato del lavoro. In fondo lo stesso reddito di cittadinanza è fallito perché è pienamente mancata, così come era nella stupida configurazione attribuita da Di Maio e dai cinque stelle, l’idea di una politica attiva del lavoro. La politica attiva è fondamentale anche per superare la discrasia tra offerta e domanda nel mercato del lavoro, visto che sappiamo tutti quanti centinaia di migliaia di posti inevasi ci sono nei settori professionali proprio a causa della mancanza di una politica attiva del lavoro mirata. Una assenza che è in parte responsabile anche del fatto che in Italia i salari sono troppo bassi, un problema che ha almeno trent’anni di età, ma che si è decisamente aggravato negli ultimi anni e non mi dilungo su quanto incide su questo il pessimo andamento della produttività in questo paese. L’ultimo aspetto che richiamo della politica del lavoro riguarda l’occupazione giovanile: abbiamo 2,5 milioni di giovani che non studiano e non lavorano, oltre ad avere uno dei tassi di disoccupazione giovanile più alti dell’Unione Europea. Non c’è quindi solo da fare una sorta di rivoluzione del reddito di cittadinanza, ma c’è da usare in modo mirato la leva della politica attiva del lavoro, rivoluzionando finalmente i pessimi centri pubblici di impiego, che al sud più che al nord, operano nel nostro paese, per affrontare al meglio gli aspetti diretti e indiretti di quella politica dell’occupazione che è sempre stata a cuore alla storia dei repubblicani. Credo che su queste basi spetti a noi incalzare il nuovo ministro del lavoro e il Governo.
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Ultimo, ma non meno importante, la Meloni ha avuto il merito di rilanciare in qualche modo (mi scuso per il bisticcio) la questione del merito. Per ora ha cambiato il nome del ministero della pubblica istruzione introducendo la parola merito. Vedremo cos’altro farà in futuro e dovremo essere vigili su questo consapevoli che non c’è sana meritocrazia senza concorrenza e che non c’è una sana concorrenza senza una vera meritocrazia. Purtroppo la destra di cui la Meloni è la massima esponente ha dei ritardi enormi quanto alla questione della concorrenza, in un paese in cui ci sono gravissimi ritardi in fatto di concorrenzialità quanto a liberalizzazioni, concorrenzialità del sistema eccetera eccetera. Ora i Repubblicani che attingono ad una sana cultura liberaldemocratica debbono fungere da presidio sulle sorelle gemelle, concorrenza e meritocrazia, avendo le carte in regola con la loro storia, consapevoli che la destra ogni volta che arriva una legge sulla concorrenza (purtroppo pochissime, ma Draghi le ha ripristinate), così come la sinistra ha un ritardo enorme, e sembra che l’unica cosa a cui sia interessata sia di difendere le fin troppe corporazioni che esistono in questo paese, a cominciare dai taxisti e dai balneari, per proseguire la difesa delle troppe bardature burocratiche di certi obsoleti ordini professionali che ostacolano la concorrenzialità del sistema.
Mi scuso se ho dovuto dilungarmi, ma questo articolo è anche frutto di tanti miei libri, tanti articoli, tantissime riflessioni che durano da molti anni anche se prova a cogliere i tanti temi e punti su cui spetta ad oggi ai Repubblicani recuperare quello che storicamente è stato il loro modo di fare politica, per poter così incalzare il governo sui veri contenuti che interessano al paese. Credo inoltre che i nostri compagni di viaggio delle candidature elettorali, Azione ed Italia viva, possano avere qualcosa da imparare dai Repubblicani su quale deve essere un atteggiamento verso il governo nell’interesse del paese e quali devono essere le vere priorità dell’Italia. Certo per fare questo serve passione, orgoglio, coraggio, non ultimo capacità di studio dei problemi, e confronto aperto e discussione negli organi interni. Ma serve soprattutto finalmente recuperare, come sarebbe più facilmente possibile nel momento in cui si recupera un metodo di azione politica di questo genere, capacità di comunicazione e grazie anche a questo intercettare quella galassia Repubblicana e liberaldemocratica, che per ora sta fuori dal partito, e riacquistare una sana capacità di fare proselitismo.
Foto galleria Presidenza del consiglio dei Ministri