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Sul corpo come espressività. Tra symbolon e psyché

Giuseppe D'Acunto di Giuseppe D'Acunto
14 Novembre 2022
in Cultura
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Di José Ortega y Gasset, senz’altro il più grande filosofo spagnolo della prima metà del ’900, segnaliamo l’uscita di un volume composto di cinque scritti –tutti pubblicati all’incirca un secolo fa – dal titolo: Il corpo tra symbolon e psyché. Saggi filosofici (a cura di Giulia Gobbi, Meltemi, Milano 2022, pp. 120). Scritti che qui vengono raccolti sotto la cifra comune del tema che, presi nel loro insieme, li attraversa: lo statuto della corporeità, nel rapporto che essa intrattiene con la sfera psichica, cui noi diamo anche il nome di anima, coscienza o spirito. Anima e spirito, però, in particolare, non sono la stessa cosa. Vediamo dove sta la differenza che corre fra di loro.


Muovendo da un’idea della persona umana vista non come uno spazio omogeneo in cui ogni punto è identico all’altro, ma come una compagine dai confini mobili e non marcati fra le grandi zone che la costituiscono, Ortega giunge a individuarne appunto tre di queste grandi zone. Esse sono la vitalità, che sta per quel sostrato di energia, oscura e latente, che vivifica la nostra intimità e che funge così da fondamento e radice della nostra persona, l’anima, che corrisponde alla regione, dai contorni fluidi e porosi, dei desideri, dei sentimenti e delle emozioni, e lo spirito, che presiede all’esecuzione di tutti quegli atti istantanei, come, ad esempio, volere e pensare, di cui ognuno di noi si sente vero e proprio autore e protagonista. Il punto è che una tale distinzione non è gerarchica, perché, come si diceva, ogni regione sconfina in quella contigua, rendendo impossibile stabilire con precisione dove finisce l’una e inizia l’altra. Così, ad esempio, c’è una parte di noi – il nostro “fondo oscuro” o “substrato animale” – che a tal punto è infusa nel corpo da costituire una sorta di “anima carnale”, detta da Ortega anche «intracorpo», da lui definito come la “cornice dentro la quale ci appare ogni cosa”, nella misura in cui è ciò che funge da pietra di paragone per la costruzione del nostro mondo esteriore. In altre parole, l’ “intracorpo” è una pellicola di spessore talmente variabile che aderisce, da un lato, all’anima, mentre, dall’altro, alla forma del corpo materiale.


A partire da questa partizione in tre zone distinte della nostra intimità – partizione imposta dai fatti e non dovuta ad astratte ipotesi metafisiche – ne discende che noi dobbiamo parlare di tre “io” altrettanto distinti che si integrano nella nostra personalità: un “io” della sfera psicocorporea, un “io” dell’anima e un “io” spirituale o mentale. Il primo può essere paragonato a un “torrente cosmico unitario”, il secondo presenta un carattere intimistico e privato, mentre il terzo ha il profilo, pubblico e universale, di un principio identico in tutti gli individui. E ciò che vale in sede di psicologia individuale e come connotato delle età della vita, vale, al tempo stesso, anche per i popoli, gli stili e le epoche della storia. L’arte greca, ad esempio, è forma, pura presenza, plasticità, laddove l’arte medioevale, e quella gotica, in particolare, in quanto ha un carattere fortemente espressivo, è indice di un predominio dell’anima. L’andamento dei secoli successivi, dal Rinascimento all’età moderna, segna invece l’affermarsi sempre maggiore della spiritualità, la quale riduce progressivamente sotto di sé l’anima e la pura vitalità: anima che, dopo un lungo periodo di vita segreta, fa il suo imponente ritorno solo nel XIX secolo.


Dicevamo che Ortega, nel saggi che compongono il libro in questione, si interroga sullo statuto della corporeità. Vediamo così a quali conclusioni perviene. Innanzi tutto, egli si chiede se il corpo umano è un corpo alla stessa maniera in cui lo è, ad esempio, un minerale. Ebbene, corpo si dice appunto in due modi, nel senso del minerale e in quello della “carne”, dove ciò che differenzia l’uno dall’altro è che, mentre il primo è “tutta esteriorità”, la seconda è, invece, “essenzialmente intimità”: quell’”intimità” che noi chiamiamo “vita”. «La carne del corpo manifesta qualcosa di latente, ha un significato, esprime un senso. I greci chiamavano “logos” ciò che ha un senso, e i latini tradussero questa parola con […] “verbo”. Dunque, nel corpo di un uomo il verbo si fa carne; tutta la carne incarna letteralmente un verbo, cioè un senso, poiché la carne è espressione, è simbolo manifesto di una realtà nascosta, latente. La carne è geroglifico. È l’espressione come fenomeno cosmico».


Ora, il potere espressivo della «carne» si manifesta, in particolare, nel gesto emotivo: gesto che, non cadendo sotto il regime governato dal principio di utilità, come si verifica, invece, nel caso del movimento riflesso e di quello volontario, costituisce la pietra di inciampo dell’utilitarismo biologico spenceriano e darwiniano. «La questione è che le due teorie canoniche di Spencer e di Darwin non sono riuscite a spiegare il gesto emotivo, perché lo hanno ricondotto all’abituale meccanismo fisiologico». Ortega nota come l’espressione, nel suo profilo cosmico, faccia leva su una corrispondenza tra ciò che è spaziale e ciò che è psichico, sfere tra le quali viene a stabilirsi un nesso di funzionalità simbolica. Così, ad esempio, mentre l’allegria ci fa espandere in tutte le direzioni dell’ambiente in cui ci muoviamo, la tristezza, invece, contraendoci, ci rende ermetici verso l’esterno.


E a questo punto, Ortega trova che, in prospettiva scientifica, la massima valorizzazione dell’espressione come “fenomeno cosmico” si debba a Goethe,
il quale, nello studiare un fenomeno, non lo scompone mai nei suoi elementi ipotetici e astratti, come fa Galileo, ma, contemplandolo nella sua concretezza
e immediatezza, ossia per come esso ci si presenta, lo interpreta “come se fosse un segno che il cosmo crea per rivelarci un segreto che risulta essere la
legge naturale”. E come il corpo si fa carico di “un valore simbolico, tutto ciò vale, naturalmente, anche per l’abito che noi vestiamo. Esso è il “primo
abbellimento”, il quale, proprio in quanto tale, “simboleggia lo stato della propria interiorità”: “copre e allo stesso tempo scopre”. Sorge di qui la domanda sul significato della nudità, visto il parallelismo che sussiste fra il grado in cui viene o meno esibita e la ricchezza della vita interiore che essa manifesta. «Più intimità possiede l’essere, maggiore sarà il grado di nudità; cioè il suo corpo parlerà più della sua anima».

Foto Pompeo Girolamo Batoni, Matrimonio di Cupido e Psiche (part.) | Sailko CC BY 3.0

Giuseppe D'Acunto

Giuseppe D'Acunto

Giuseppe D’Acunto: ha insegnato presso le Facoltà di Filosofia de «La Sapienza» e dell’Università Europea di Roma. È direttore editoriale della rivista di filosofia on-line «Consecutio temporum», condirettore della rivista di filosofia «Azioni Parallele», nonché membro del Comitato Direttivo del «Centro per la Filosofia Italiana»

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