“Robespierre ingannandomi mi fece firmare l’arresto del mio ristoratore preferito, solo per farmi un dispetto”, Lazare Carnot, Comitato di Salute Pubblica
Della complessa bibliografia robespierrista il testo appena giunto in stampa dello storico britannico Colin Jones, “La caduta di Robespierre”, Neri Pozza editore, ha il pregio piuttosto raro dell’originalità. Jones evita di ricostruire anni tribolati e poveri di documentazione, o di indagare aspetti oscuri e controversi in cui pure si sono impigliati tanti suoi colleghi nel tentativo di descrivere la gioventù di Robespierre nella tetra e monotona Arras. Non gli interessano nemmeno passaggi più facilmente ripercorribili, da insignificante e persino ridicolo deputato a protagonista della Rivoluzione. Jones si concentra tutto su una sola unica giornata, quella fatidica del 9 Termidoro. Sulla base degli archivi e della documentazione recuperata, il lavoro di Jones supera le seicento pagine. Vi sono biografie sul capo giacobino che toccano appena le trecento ed altre che non raggiungono nemmeno tale voluminosità. Questo da un’idea di cosa significa scandagliare un’epopea che attinge alle fonti più disparate e che appare ricchissima come poche altre nella storia. Era François Furet a scrivere, parafrasando il convenzionale Boissy d’Anglos, che un anno di rivoluzione sembrava venti comuni. In un lavoro certosino si impegnò anche Augustin Cochin, uno storico dilettante degli inizi del ‘900. Cochin voleva dimostrare che le citazioni del Taine contestate dal professor Aulard erano tutte riscontrabili. Ed Aulard era persino più meticoloso nelle sue ricerche di quanto lo potesse essere lo stesso Taine. Se davvero esistesse “un enigma” Robespierre, abbiamo persino Jonathan Israel che definisce Robespierre “controrivoluzionario”, questo dipende dal fatto che la Rivoluzione è un enigma con autentici misteri rimasti sepolti. L’Arcivescovado ad esempio. Non era una sezione, non era un club, ma nel suo romanzo “Novantatre”, Victor Hugo lo ritiene l’unica cosa di cui Robespierre avesse timore. E sempre per restare ai romanzi e romanzieri, bisognerebbe spiegare la vita politica di Laclos, l’autore delle “Relazioni pericolose”, fedele agente del Duca di Orleans. Questo per mettere a fuoco le autentiche dinamiche rivoluzionarie che caratterizzano Parigi. Senza i soldi del duca non ci sarebbe mai stata una qualche insurrezione.
E’ ammirevole comunque come l’approfondimento di una sola giornata riesca a mettere in risalto aspetti tanto complessi. Jones non crede che Robespierre aspirasse alla dittatura così come esclude che fosse un dittatore. Fu il grande Michelet a definire Robespierre semmai un “papa”, ovvero privo di poteri operativi diretti. Il pensiero rousseauiano avvinghia i protagonisti della Rivoluzione più disparati, persino Barnave era rousseauiano per non dire di madame Roland, lo scriviamo contro chi sostiene che lo fosse solo la Montagna, quando i cordiglieri non lo erano, essendo atei. Ed il pensiero di Rousseau spinge tutti alla diffidenza verso il governo in generale. Robespierre in particolare contesterà il governo anche facendone parte, da qui il suo scontro con i comitati. La documentazione della seduta dei comitati congiunti del 9 termidoro mostra come Saint Just tenti ancora una politica di riconciliazione dopo le intese fallite nelle giornate del 3 e del 4. Jones fa rivivere le pagine del “Fouché” di Stefan Zweig. Il futuro ministro di polizia di Bonaparte agita una crisi politica facendola scivolare in una autentica congiura. Fouché era legato tanto a Danton che ad Hebert, e questo mette in luce come la lotta alle fazioni del famoso rapporto di Saint Just dell’aprile precedente, comportasse un attacco a quella di Marat, ancora non interamente consumato. Fouché ricompatta tutte le diverse anime che ne facevano parte, Carrier, Tallien, ovviamente, Barras, Collot d’Herbois, Billaud, Freron, tutti cordiglieri, tutti arciterroristi, tutti convenzionali in missione, tutti termidoriani. E’ vero poi che costoro, come sostiene Jones, non vogliono concludere la Rivoluzione, non sono dei dottrinari. Puntano a scaricare i loro torti, su chi li accusa di malversazioni. L’intesa dei vecchi cordiglieri hebertisti o dantonisti che fossero, prende piede dalle leggi di pratile, quando Robespierre e Saint Just dirigono il Terrore contro il governo. Ma Robespierre attacca anche i corrotti che seggono al ministero delle finanze, i generali che hanno sbagliato manovre. I comitati hanno incarcerato Hoche! Troppa carne al fuoco, e mezza Convenzione si sente minacciata e ribalta il sostegno che il club giacobino aveva dato ai suoi propositi incendiari la sera dell’8.
Il parapiglia avvenuto alla Comune, dove Robespierre si ritrova contro la sua volontà, è indiscusso. Non ci sono dubbi che Robespierre voleva essere arrestato e processato, non accetta l’insurrezione popolare contro la Convenzione, che è tutta la sua vita politica e meno che mai farebbe un colpo di Stato. I suoi sostenitori vogliono un proclama ma lui una volta perso il consenso del Parlamento, non sa più davvero a che santo votarsi. Robespierre non era un dittatore e tantomeno un presidenzialista. E anche vero come si legge nella recensione di Solinas per il Giornale, che egli non aveva nessuna autentica familiarità con il popolo della Parigi di allora. La sua estrazione era piccolo borghese, così come il suo tenore di vita e le sue preoccupazioni sociali volte ad un livellamento generale della rendita. Robespierre non era nemmeno socialista. E’ stato invece il primo teorico di una politica dei redditi. Egli si riteneva non un “rappresentante” del popolo e nemmeno “un amico” del popolo. Era convinto di essere il popolo stesso personificato. Salirà le scale della ghigliottina con tutto il peso del popolo francese sulle spalle e una mascella fracassata che non gli consentirà più di dargli voce.
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