La guerra in Ucraina ha fatto emergere un nuovo ordine internazionale che ha rotto gli equilibri della globalizzazione producendo sia una ridefinizione e restrizione delle catene globali del valore, sia un passaggio etico valoriale che al primato dell’efficienza economia integra, fino a sostituire in alcuni casi, quello della resilienza e della sicurezza. Sostituendo al bipolarismo della guerra fredda la divisione, già teorizzata da Niall Fergusson, di un mondo diviso tra “the West and the rest”. Da una parte un occidente liberaldemocratico a trazione statunitense che cerca di riaffermare una governance euroatlantica, dall’altra un “resto del mondo” che seppur non organizzato in una leadership univoca, trova in Pechino, un punto di riferimento per i propri interessi strategici, definendo un neo- “non allineamento” dove paesi come India, Iran e Turchia trovano una nuova centralità politica e strategica capace di ridefinire le cartografie delle classificazioni convenzionali. Per meglio comprendere queste metamorfosi abbiamo intervistato l’ambasciatore Sergio Vento, già consigliere agli esteri della Presidenza del Consiglio, responsabile esteri del PRI, e tra i maggiori conoscitori delle dinamiche internazionali.
Ambasciatore Vento, secondo lei quali sono oggi le vere sfide e prospettive della dimensione euroatlantica?
«Prima di rispondere vorrei partire da una premessa. Io considero la collocazione euroatlantica dell’Italia come la vera stella polare della nostra politica estera, e per certi versi anche della politica interna, per varie ragioni: storiche ed economico-sociali, sotto il triplice profilo della crescita, della redistribuzione della ricchezza, degli equilibri politici e della sicurezza. Una dimensione euroatlantica che storicamente ha poggiato da prima su una economia mista, più affine alla storia e alla tradizione del Partito Repubblicano Italiano, e in seguito su una visione neoliberista impostata sulla deregulation e sulla economia di mercato, ma che in sostanza ha caratterizzato lo sviluppo dei paesi occidentali dalla seconda metà del novecento ad oggi permettendo risultati importanti e positivi sotto tutti i profili di cui abbiamo parlato in precedenza. Premesso tutto ciò, credo che la vera sfida di questa dimensione sia data dalla circostanza che essa sia oggi vittima di criticità e problematiche, che non vanno sottovalutate e su cui bisogna intervenire cercando di trovare delle possibili “cure”, “correzioni” e “soluzioni”. È fondamentale, in sostanza, offrire delle forme di “governance” della dimensione euroatlantica al fine di coordinare le forze produttive e le necessità strategiche delle democrazie occidentali secondo una prospettiva comune, cercando di evitare asimmetrie, tensioni e discrasie tra le due sponde dell’Atlantico».
Può farci qualche esempio recente?
«Certamente. La governance euroatlantica è una necessità che è emersa, in più occasioni e negli ultimi mesi, ad esempio, con l’introduzione dell’Inflation Reduction Act (IRA).Questa iniziativa, nonostante sia stata introdotta nel contesto di una più affiatata sinergia tra Stati Uniti ed Unione Europea nella condanna comune all’aggressione di Putin in Ucraina, ha invece sollevato forti critiche e malumori in Europa. Un malcontento dovuto soprattutto all’iniezione di circa 350 miliardi di dollari nell’economia statunitense, che in Europa è stata interpretata come una forma di protezionismo da parte dell’alleato Atlantico, in contraddizione con quella necessità di solidarietà transatlantica di cui invece essi necessitavano».
Perchè è importante questo evento?
«Poiché sottolinea il fatto che se non si “pone cura” al buon funzionamento della dimensione euroatlantica, si crea seriamente il rischio che venga meno il coordinamento strategico tra le due sponde dell’Atlantico, e si creino delle tensioni o delle diversioni. Pensiamo alla visita di Macron in Cina…».
Che significato ha avuto questa visita?
«Essa ha mandato un segnale molto chiaro e non dobbiamo fare l’errore di pensare che questo messaggio riguardi solo la proiezione strategica della Francia, ma è, invece, la testimonianza di un “malumore” diffuso tra tutti i leader europei. Non a caso il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha affermato che Macron ha detto ad alta voce ciò che molti capi di stato europei pensavano e forse pensano tutt’ora. Ciò deve far riflettere perché non si tratta di un caso isolato, ma di una constatazione fondamentale. Infatti, mentre sulla solidarietà comune all’Ucraina nella guerra contro la Russia c’è un fronte coeso e non ci sono (e non ci devono essere) delle defezioni dispersive fatte di calcoli egoistici e strategie individuali anomale, sulla bussola strategica nei confronti della Cina i partner europei sono molto più riluttanti a seguire gli Stati Uniti. Fermo restando che la Cina è una autocrazia, anche se molto spesso in passato un certo pragmatismo economico ha sottovalutato questo aspetto, ci sono delle variabili in gioco nel rapporto tra Pechino e il blocco delle democrazie occidentali che non possono essere sottovalutate se vogliamo capire il perché di questa discrasia. Relazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo del rapporto tra autocrazie e democrazie durante la massima espansione della globalizzazione, di cui la Cina è stata uno dei massimi beneficiari, e nel cui contesto, a differenza di oggi, al primato della sicurezza strategica si preferiva quello dell’efficienza economica».
Secondo lei quali sono oggi le grandi partite sulla scacchiera globale?
«Allo stato attuale dobbiamo distinguere tre importanti scenari: il conflitto tra Russia e Ucraina; la sfida strategica posta dalla Cina nei confronti dei paesi occidentali, il cui principali campi di battaglia sono gli stretti di Taiwan; infine i componenti “il resto del mondo”».
Partiamo dalla questione ucraina…
«Sul tema del conflitto russo-ucraino allo stato attuale non sembrano in vista spiragli di trattativa. Anche se l’esperienza ci insegna che dobbiamo distinguere tra i messaggi ufficiali e i percorsi in continua evoluzione tipici della dialettica tra stati. Mi ha molto colpito, sul tema, un articolo di qualche settimana fa su Foreign Affaires, in cui Richard Haass, presidente dell’autorevole Council on Foreign relations, sottolineava la necessità di sostenere l’Ucraina tra le altre motivazioni, per protrarre lo scontro almeno fino al prossimo autunno, quando potrebbe partire una probabile iniziativa negoziale tra le grandi potenze al fine di costruire una “architettura di sicurezza europea” (tema in passato molto sottovalutato). Da qui all’autunno, secondo Haas, Kyiv dovrebbe riprendere terreno al fine di migliorare la sua posizione negoziale. Al tempo stesso il sostegno non deve rischiare di imprimere un escalation del conflitto. Di fronte a questa opzione è necessario guardare alla costruzione di un progetto politico successivo che includa anche un vasto programma di ricostruzione dell’Ucraina ed una rivitalizzazione dell’OSCE di Vienna per un maggiore coordinamento tra paesi i Nato e la Russia. In ogni caso dal punto di vista diplomatico e strategico la campagna della Russia è stata un totale fallimento».
Quale è stato l’evento chiave che ha segnato il fallimento della campagna russa?
«La massima conferma del fallimento della campagna di aggressione della Russia è stato l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Una Nato che è riuscita a recuperare una nuova autorevolezza, dopo la parentesi del post Guerra Fredda».
Analizziamo la Cina invece. Quali sono le sfide che porta questa “nuova potenza”?
«Su questa seconda dimensione, dobbiamo partire dalla constatazione che mentre con la Russia si è vista una mobilitazione coesa dell’Occidente sul tema della guerra in Ucraina, invece con la Cina tale coordinamento compatto ha mostrato molte criticità, soprattutto per le diverse relazioni che intercorrono tra i paesi europei e la Cina, di cui abbiamo parlato in precedenza. Se con la Russia e alcuni paesi europei esisteva solo una dipendenza energetica, con la Cina i rapporti sono molto più articolati. Non è solo un mercato in cui l’UE esporta, ma un soggetto economico complessivo nella definizione delle catene globali del valore favorite dagli effetti degli investimenti e dallo sviluppo tecnologico. Per tali ragioni su Taiwan, nonostante le numerose ragioni logistiche e strategiche ad essa connessa, c’è una minore coordinazione rispetto al caso di Kyiv ed è molto più complesso elaborare un approccio comune. Soprattutto perché oggi la Cina non è più solo la “Fabbrica del mondo ad alta intensità di lavoro”, ma è anche un grande polo tecnologico e soprattutto un “player” capace di creare network internazionali alternativi, pensiamo ai Brics e alla Shanghai Cooperation Organisation di cui sono membri anche India e Pakistan, e di cui si apprestano a diventarlo anche l’Arabia Saudita e l’Iran, sulla scia della mediazione operata tra loro da Pechino. Per tale ragione c’è da chiedersi se la tensione tra USA e Cina è veramente solo sull’indipendenza o meno di Taiwan o è anche, giustamente, la proiezione del confronto tra superpotenze, dovuto dalla prospettiva di un eventuale sorpasso cinese».
Invece sul resto del mondo?
«C’è un’opera di Niall Fergusson dal titolo The west and the rest dal significato molto istruttiva. Esiste, infatti, un resto del mondo, che non rientra nel confronto tra autocrazie e democrazie, composto da paesi come l’India, il Brasile, Sudafrica, Turchia ed altri paesi latino americani ed africani. Tali paesi sono passati dal “non allineamento” della guerra fredda ad un nuovo “non allineamento” rafforzato dalla loro realtà di economie emergenti alimentate dalla globalizzazione. Più recentemente il loro ruolo si ripropone in forma diversa alla luce di un processo di deglobalizzazione e alla nascita di nuovi network alternativi che non possono essere sottovalutati. Per molto tempo come occidentali abbiamo pensato che i paesi del “resto del mondo” potessero seguire gli automatismi dell’ordine unipolare successivo al crollo dell’Unione Sovietica. Oggi, invece, si stanno imponendo nuove sfide, portate dalle autocrazie, che non rendono più improbabile la definizione di un possibile “ordine multipolare”. Tale prospettiva merita un maggiore coordinamento transatlantico e un maggiore impegno da parte dell’Europa. Tali sfide investono anche il tema monetario-valutario, minacciato dalle bolle finanziarie e più recentemente da alcuni sintomi de-dollarizzazione».
Quale è il ruolo dell’Europa in questo scenario?
«Oggi l’Europa non ha più una capacità di influenza nella scena internazionale, mancando di una politica estera, di sicurezza e di difesa comune. Si impone una necessità di coordinamento che non può riguardare solo il fronte ucraino, ma che deve riguardare anche l’Africa, il Golfo, l’America latina e le frontiere europee. Nel caso dell’Italia tale esigenza investe evidentemente il “Mediterraneo allargato” che è una nostra naturale proiezione strategica ed energetica a cui non possiamo, e non dobbiamo, abdicare. E mi auguro che una nuova prospettiva comune europea, in complementarietà con gli USA, possa emergere soprattutto sin dal prossimo autunno in occasione del rinnovo dei vertici delle istituzioni dell’UE».
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