Di John Dewey (1859-1952), esponente di punta del cosiddetto “pragmatismo americano”, è uscito da poco, in edizione italiana, un testo (La ricostruzione della filosofia, a cura di L. Vaiana, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 262), nel quale, fin dal titolo, compare una parola che può essere considerata come la cifra della sua intera produzione filosofica: «ricostruzione». Essa rende bene l’idea, infatti, di come poiché, per il nostro autore, il termine in questione coincide con il processo stesso in cui si articola tutta la realtà, ecco che l’unico atteggiamento filosofico da assumere non può che consistere nell’adozione del metodo della risoluzione dei problemi: problemi come anche quelli che emergono dallo studio della storia della filosofia e, più in generale, del sapere occidentale. Ebbene, una tale concezione la troviamo pienamente esplicitata proprio nel testo qui segnalato, il quale, corrispondendo alla maturità filosofica del suo autore, segna anche il suo raggiungimento della notorietà internazionale. L’opera ha due edizioni: nel 1920, la prima, e nel 1948, la seconda. In quest’ultima compare l’aggiunta solo di una lunga introduzione, dove Dewey – come afferma il curatore –, dopo aver ribadito la validità del metodo della «ricostruzione», lo presenta, ancora una volta, come «l’unica garanzia per la migliore convivenza umana».
Il primo momento del metodo della «ricostruzione» consiste nel mettere in discussione il caposaldo sulla cui base si è costituita tutta la metafisica occidentale: la distinzione fra apparenza e realtà, con la conseguenza che solo la seconda può aspirare a essere l’unico e vero oggetto di conoscenza. Secondo Dewey, la realtà presenta, invece, un carattere “ambivalente” e “arbitrario”, in quanto noi siamo naturalmente portati a selezionare e a mettere in risalto alcuni aspetti di essa, piuttosto che altri, a seconda della prospettiva nel cui segno la mettiamo a tema. Il punto è, però, che i filosofi puramente speculativi sono caduti nell’errore di descrivere la realtà univocamente, assegnando alla sfera di essa tutto ciò che presentava i caratteri dell’ordine, della stabilità e dell’unità e confinando nella sfera illusoria dell’apparenza tutto ciò che presentava i caratteri opposti. È così che la prima forma di «ricostruzione» va portata avanti proprio rispetto al concetto tradizionale di realtà, facendo leva su una nuova concezione, definita da Dewey «naturalismo empirico», «empirismo naturalistico» o anche «umanesimo naturalistico».
Trattandosi così di ripristinare la continuità fra esperienza e natura, bisogna muovere dal fatto che quest’ultima, consistendo di eventi piuttosto che di sostanze, è soggetta a mutamenti continui e ininterrotti: mutamenti che non sono più una semplice successione di apparenze, ma si incardinano in relazioni causali costanti che possono essere studiate dalle scienze logico-matematiche.
Venendo al nostro testo, qui l’impresa di «ricostruzione» si articola, più in particolare, come metodo storiografico di indagine storica, così che la continuità da ripristinare riguarda, ora, il rapporto tra filosofia e storia. Stando a quanto leggiamo in esso, infatti, quel che Dewey vuole portare avanti è «un’interpretazione della ricostruzione delle idee e dei modi di pensiero oggi presenti in filosofia». E ciò allo scopo di «mostrare il contrasto generale tra i vecchi e i nuovi tipi di problemi filosofici». Tale «ricostruzione» non intende, però, essere meramente accademica, perché non si tratta di «accrescere lo studio del passato», ma di gettare una «luce sui problemi che oggi affliggono l’umanità». In più, non si deve «semplicemente ripetere il passato, o aspettare che fatti accidentali ci costringano a cambiare», ma far sì che le nostre esperienze passate ci aiutino a «costruirne nuove e migliori in futuro». Anche in questo caso, poi, non si tratta di assumere la postura di spettatori che contemplano a distanza «assolute cose-in-sé», ma di avere davanti agli occhi un «quadro vivente di uomini riflessivi che fanno la loro scelta su che cosa vorrebbero fosse la vita» e che si propongono dei fini con cui giungono a «plasmare la loro attività intelligente». In queste affermazioni, da sottolineare è il fatto che la critica di Dewey nei confronti di una ricerca di tipo imparziale e disinteressato fa sì che egli – lo nota ancora il curatore – «non possa essere ricondotto all’oggettivismo positivistico».
Dicevamo all’inizio che il metodo della «ricostruzione» viene configurato, da Dewey, soprattutto come uno strumento per la risoluzione di problemi. Da qui, tra l’altro, viene la connotazione della sua posizione filosofica anche come «strumentalismo». Ebbene, mettendo un tale metodo a servizio della ricognizione critica degli errori filosofici del passato, il nostro autore vuole conferire a quest’ultima, appunto, una funzione strumentale: far emergere, come unico valore che può promuovere il benessere dell’umanità, l’«intelligenza creativa», intesa come un’indicazione empirica, attinta da un autore del passato e usata, rispetto a lui, «in modo costruttivo per nuovi fini». Scrive, al riguardo, Dewey: «la teoria strumentale tenta solo di asserire con una certa scrupolosità dove si trovi il valore e di evitare che sia cercato nel luogo sbagliato. Essa dice che la conoscenza ha inizio con osservazioni specifiche che definiscono il problema e finisce con osservazioni specifiche che mettono alla prova l’ipotesi della sua soluzione».
Dicevamo, ancora, appena sopra, che il dato prelevato dal passato si offre, per Dewey, come un’indicazione empirica. Ebbene, egli precisa che tale indicazione presenta un tratto, più che meramente empirico, sperimentale. E ciò proprio perché «l’esperienza passata è utilizzata per sviluppare un’esperienza nuova e migliore», così che l’esperienza stessa, profilandosi come «costruttiva», si caratterizza per avere una dimensione spiccatamente «autoregolativa». E proprio applicando il metodo sperimentale alla storia, Dewey lo articola nei momenti che sono tipici del metodo scientifico moderno: osservazione e raccolta dei dati, cui segue la loro interpretazione, prospettata attraverso la formulazione di un’ipotesi e, infine, la sua verifica. Il metodo sperimentale deve avere, inoltre, per lui, anche una ricaduta sul piano morale. Erronea è, infatti, la distinzione tradizionale fra morale e scienza, nel senso che quest’ultima, provvedendo all’«individuazione delle pene umane concrete e allo sviluppo di piani per rimediarle», finisce per darsi così essa stessa una forte impronta morale.
La domanda che sorge a questo punto è come la scienza, pur essendo contingente, come tutte le cose storiche, possa nonostante tutto fungere da modello per le altre discipline che costituiscono il campo del sapere. La risposta è che essa può esserlo, perché nel suo segno si produce un’unificazione di sfere, tra loro, tradizionalmente separate – e che ancora oggi lo sono –, come la metafisica, l’epistemologia, la storia della filosofia, l’etica e l’estetica: unificazione da realizzarsi attraverso una loro umanizzazione. Per cui è proprio questo il punto intorno al quale – scrive sempre il curatore – può essere colta «l’ambiziosa novità di Dewey». Quest’ultimo sancirebbe cioè la fine del divorzio millenario fra naturalismo e umanesimo, a partire dal fatto che i valori vengono interpretati, da lui, naturalisticamente, ossia visti non come una sfera distinta dagli eventi, ma come una qualità intrinseca ad essi.