Con Federico Ziberna è andata così. Ho letto Qui! che è un libro di una bellezza che atterra. Ha tutto: originalità, bello scrivere, profondità, leggerezza. Due sono gli istinti: quello di copiarlo, o quello di nasconderlo agli altri, così non si vede la differenza con i tuoi. È una prosa che ti spinge alla competizione e non ci sono santi: soccombi. Lui è più bravo. Allora sale su la parte peggiore: ti ignoro, faccio finta che non esisti. Che non dura molto, per fortuna. Lo voglio conoscere, mi dissi però. E anche questo non lo so giustificare. Meglio non conoscerli gli autori che ami. Perché ti verranno incontro con la loro umanità e non troverai traccia del genio. Troverai un caffè, frasi di circostanza, il traffico, il caldo, la Juve. Però la copia autografata ha il suo perché.
Una sera che presentai un mia cosa a Milano (Piazza Dalmazia?) venne lui da me. Non si presentò. Al firmacopie mi disse solo: Federico. E se ne andò. Da cosa avrei dovuto riconoscerlo? Me lo scrisse su Facebook, dopo avermi chiesto l’amicizia, il giorno dopo. «Avevi tanta gente, sono scappato». Capito? Voglio incontrare una persona, la incontro e non lo so.
Poi la vita ci ha destinato qualche altro incontro consapevole, qualche caffè, qualche frase di circostanza, il traffico, il caldo, ma forse non abbiamo parlato della Juve. Ed esce questo lavoro nuovo. Così torna a ripresentarsi quell’ammirazione che non sai rendere, perché ti ritrovi scarso di parole e immagini come un Premio Strega qualsiasi. E lo fa con un mito che sa di classico, Orfeo e Euridice, con intenzioni nuove, con intensità rara, con ispirazione. Perché quello è il femminile che hai sempre cercato e che raramente hai saputo maneggiare e dire. A questo serve la Poesia. A mettere a terra. Solo nella Poesia si incontrano le intelligenze che si sono alzate per davvero. Ma bisogna dire questo: che il femminile non esiste, che è fatto della vita di ogni donna, dove si accorcia la memoria e per dire un universale lo devi riempire di tutti i particolari che conosci, come un sacco di patate: non ci puoi mettere le zucchine, è un sacco di patate per quello. Altrimenti sarebbe un sacco di zucchine. A questo servono gli universali e i miti. A metterci dentro cose che poi devi tirare fuori. Come la memoria, ma in forma più spudorata. Perché il sacco è il “tempo pieno”, là dove “tutto ti è dato”. E questa cosa qua, dicevamo, puoi chiamarla amore se vuoi e farci un tempio, e andarci sempre, anche quando non ne sei (più) degno. «Perché improvvisamente ti vedo | povero di altri discorsi che non siano | neolitici cerchi che si allargano | perdendosi in acque inutili. Non me ne ero mai accorta | non sei poi brillante come quando ti amavo, mi sbagliavo? [Erano solo parole dunque, le tue? | Credo ti abbia scambiato per quelle. | Ma se insisti… ti ricordo per queste]. | Stai per perdere anche la mia stima; | l’ammirazione postuma».
Bravo Federico Ziberna. Ci offri pagine in cui ciascuno di noi può cantare i suoi dei, ciascuno dai suoi inferni, da quei luoghi inospitali che solo una donna sa dare. «Sono i luoghi mai ovvi dell’amore, della passione inesaurita – anche oltre la morte – e dei fraintendimenti […]. Dei tradimenti fatti e di quelli subiti, prima e dopo: giustiziati e non giustificati. Dove poteva infatti esprimersi altrimenti la giustizia, che nell’Ade, in un confronto divenuto eterno con se stessi?».
Foto Tiziano, Orfeo ed Euridice. CC0