“Miti e ideologie, Il pensiero politico italiano dall’età giolittiana al fascismo”, edito da Lettere, di Giuseppe Bedeschi, offre una mirabile ricognizione della nostra cultura post unitaria. In particolare Bedeschi aveva mostrato attenzione sin dagli anni 90 del secolo scorso per la collocazione del pensiero di Gramsci. Più che un critico dello storicismo crociano, il fondatore del partito comunista, appariva un critico dell’attualismo gentiliano. Questa intuizione è sostanzialmente corretta. Gramsci, lo si capisce anche dalla veemenza dei Quaderni, era legato a Gentile e non a Croce, come vi erano legati più o meno tutti i giovani intellettuali della sua generazione, a cominciare da Gobetti. Gentile rappresentava una grande speranza per novità e dirittezza del linguaggio a cui si aggiungeva una sincera umanità. L’attualismo appariva affascinante, quanto lo storicismo scontato, in termini semplici. Lo stesso Croce, importando il pensiero di Sorel in Italia, sembra volersi dare una ripittura di fresco. Poi Gramsci a Torino frequentava le lezioni di filosofia teoretica di Gioele Solari, un gentiliano, per cui è facile ritrovare temi possibili di influenza. Mario Tronti, ad esempio, si era avviato su questa strada interpretativa riportata poi dagli studi dell’Istituto Gramsci, sin dal 1970.
Magari non si può arrivare al punto di disegnare una comune idea dello Stato, fra Gramsci e Gentile, una sorta di omologia. Anche perché in Gramsci prevarrà più un’idea di occupazione dello Stato e in Gentile, vai esattamente a capire dopo il 1926 quale è il pensiero suo e quale quello di Mussolini. De Felice offre esempi dialettici dai quali si comprende come sia difficile dedurre il filosofo dal ministro. È vero invece che l’astrattismo gentiliano, l’assolutismo dell’idea, non è un ostacolo, affatto. Noi conosciamo tutta la filippica togliattiana e quindi gramsciana che ci spiega come Hegel avesse quell’impulso realistico che Gentile dissipa completamente, tanto da apparire un bigotto. È il grande equivoco del marxismo europeo ed italiano su Marx che non era un allievo di Hegel, lo era di Schelling. Marx Hegel lo aveva solo studiato, Schelling lo aveva seguito nella sua performance universitaria più importante, quella berlinese nel 1841, “la filosofia della Rivelazione”, Die Offenbarung Philosophie. L’analisi di Marx sarà pure legata alle complessità della contraddizione della realtà materiale, ma la sua fede nel proletariato e nella rivoluzione è la pura mistica spirituale schellinghiana, la stessa che ispira indirettamente Gramsci e che risuona in Gentile. Tutto sommato Gentile era ancora il meno idealista assolutista dei due.